1. La pubblicità, da anima del commercio a anima mundi.
Ogni annuncio pubblicitario, di per sé, è un invito (a comprare) a cui ognuno è libero di aderire o non aderire. In quanto messaggio costituito di immagini, suoni e parole, non ricorre alla violenza fisica, alla minaccia o ad altra forma di costrizione. Al contrario della propaganda politica, che spesso è associata alla forza del numero o delle armi, la promozione commerciale pone sé stessa come qualcosa di innocuo, forse un po’ insistente, talvolta esagerato, una specie di tassa da pagare pur di vedere un film, ed anche fonte di distrazione e divertimento (chi non ha canticchiato tra sé e sé un simpatico jingle?)
E invece, nella pratica imprenditoriale, l’advertising è lo strumento mercé il quale un valore reale (la merce) si trasforma in valore monetario (il denaro), sostenendo la domanda, creando nuovi gusti e bisogni[i], velocizzando i processi di vendita, al fine dell’accumulazione costante dei profitti. Vi è un nesso inscindibile tra produzione, vendita e marketing, laddove la prima sarebbe inutile senza la seconda che è favorita e sospinta dal terzo, in un gioco globalizzato in cui in cui la merce ha un peso limitato[ii], più o meno lo stesso della palla nel rugby, nel calcio et similia:come in questi giochi non conta che la sfera sia bianca, nera, a scacchi o colorata, così nel processo economico non rileva che la merce sia salubre o nociva, utile o inutile, materiale o digitale, ecc.: l’importante è che corra. Davvero la pubblicità è “l’arte ufficiale del capitalismo”[iii] ossia l’anima del commercio, come riconosceva la sapienza popolare. E ciò spiega il motivo per cui gli imprenditori destinano ingenti risorse alle strategie promozionali, anche a discapito del benessere dei lavoratori e perfino dell’aggiornamento tecnologico[iv]. Ciò vale tanto più nell’attuale fase “liquida” della modernità, nell’accezione baumaniana, in cui, a causa della rarefazione dei territori “fisici” di conquista del capitalismo è stato necessario creare dal nulla lo stile consumistico, “la cultura dell’offerta”, strumentale a una economia della prodigalità e dello spreco[v].
In effetti, l’armata (ben retribuita) dei creativi, avvalendosi delle lusinghe, della fantasia e se necessario dell’inganno, nella nostra epoca post-moderna non ha più il semplice ruolo di fomentare il consumo per assorbire le eccedenze di capitale, come avvenne nella Parigi del Secondo impero e nell’America del Compromesso fordista-keynesiano, ovvero, quando il clima è stato recessivo, di contribuire alla difesa di sfere di mercato, sostenendo la domanda di beni e servizi. In un contesto culturale dominato dal dogma dell’economia, l’obiettivo è la creazione continua di nuove occasioni di business, mediante la colonizzazione del tempo, dei luoghi, della vita di tutti, ad ogni latitudine, in ogni continente, mediante la persuasione, le manovre legali di devolution, privatizzazione e delocalizzazione, se necessario la sovversione politica[vi]. I consigli per gli acquisti, che rientrano nella prima tipologia di azione, in questa strategia di ampio respiro abbinando toni soft e presenza pervasiva pongono la pubblicità come qualcosa di normale, anzi inevitabile “per far girare l’economia” e perfino socialmente utile, quando si ammanti delle vesti della sponsorizzazione.
I risultati:
a) anche il messaggio (di rado) vero è vulnerato nella sua verità e quindi falsificato dal secondo fine commerciale (ossia fare soldi) e il messaggio promozionale (più frequentemente) ingannevole inquina in modo irrimediabile la verità del suono, della parole, dell’immagine, della realtà a cui è associato (ad es., per anni molti hanno ignorato che il jingle di celebre liquore fosse una creazione immortale di Beethoven; perfino i miti dell’anticapitalismo e i simboli rivoluzionari sono stati piegati al mercato[vii]);
b) la réclame manipola i desideri e i gusti[viii], crea bisogni artificiali[ix] e inventando segni e immagini rende appetibili mondi virtuali, a tal punto da generare in milioni di persone non strutturate una crescente insoddisfazione verso la realtà fattuale[x] (le conseguenze: irrequietezza fisica e psicologica, frustrazione, depressione);
c) la promozione commerciale diffusa ovunque (giornali, libri, radio, tv, internet, cinema, cassette della posta, strade, mezzi di trasporto, strutture sportive, ecc.), palese o subliminale, grazie alla sua pervasività spazio-temporale diffonde fin dall’infanzia una sorta di educazione (non) sentimentale permanente, forgiando a uso e consumo dei committenti sia un nuova filosofia di vita, in cui l’essere si identifica con l’avere, sia un inedito tipo antropologico, l’homo oeconomicus, l’uomo-per-il-denaro;
d) la pubblicità, se e in quanto associata al controllo dei mezzi di comunicazione di massa, svolge un ruolo decisivo, sia nei regimi autoritari sia nelle democrazie, nella formazione del consenso “ideologico”, ossia sui valori da tutelare, promuovere, se del caso imporre (un esempio è costituito dal recente incremento di spot benevoli rispetto alle relazioni omosessuali ovvero alle cd. famiglie arcobaleno);
e) la pubblicità, specie nella “nobile” forma della sponsorizzazione, associando marchi e prodotti a realtà immateriali, diffonde l’idea per cui tutto è merce quindi traducibile in denaro.
I princìpi fondamentali, le tradizioni, le leggi morali, i beni identitari, essendo messi allo stesso piano di una qualsiasi merce, nell’opinione pubblica addomesticata (addormentata) dalla réclame permanente perdono la loro natura originaria, ossia il loro significato di realtà irriducibile a ogni manipolazione. Ovviamente, nel mondo dello scambio all-around-the-clock, di cui la pubblicità è l’anima, l’anima mundi, anche la Cultura si trasforma da otium in negotium. La sponsorizzazione è l’artificio giuridico in cui tutto ciò viene gabellato come cosa buona e giusta.
2. La pubblicità e i beni culturali.
Il rapporto tra pubblicità e beni culturali dal punto di vista giuridico, secondo le categorie generali della teoria generale del diritto, in linea astratta può porsi in termini di illecito/lecito (autorizzato/tollerato). Vi sarebbe illecito qualora la propaganda commerciale su/in manufatti qualificabili come beni culturali fosse vietata e il divieto fosse in vario modo sanzionato. Il rapporto si inquadrerebbe nella categoria della liceità qualora la pubblicità di/su/con beni culturali fosse oggetto di un contratto e/o di un provvedimento amministrativo (in tal caso uno dei soggetti del rapporto avrebbe diritto a svolgere attività promozionale su/mediante i beni culturali) oppure qualora siffatta attività propagandistica non fosse regolamentata (in tal caso sarebbe tollerata, in base al principio giuridico liberale per cui tutto ciò che non è vietato è consentito).
Il diritto italiano disciplina la propaganda commerciale sui/nei beni culturali, qualificandola in alcuni casi come vietata, ergo illecita, e in altri casi come lecita. Inoltre, regolamenta l’attività di sponsorizzazione culturale, che è una forma pubblicitaria indiretta, disciplinata in questo settore, per la prima volta in modo assoluto, dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, noto come Codice dei beni culturali e del paesaggio (d’ora in poi CBC). Il rapporto tra la pubblicità sui beni culturali, tout court, e la sponsorizzazione è riconducibile grosso modo alla dicotomia – che percorre e pervade il diritto attuale dei beni culturali – tra tutela e valorizzazione. Da una parte il divieto della pubblicità afferisce alla tutela, nella misura in cui essa è incompatibile con la salvaguardia dell’integrità del bene e dell’attività culturale; la pubblicità è ammessa se e quando non contrasti con i valori architettonici, storici e artistici; dall’altra parte la sponsorizzazione rientra tra gli strumenti riconosciuti dalla legge per valorizzare il patrimonio culturale.
Quanto al resto, al di là dei tecnicismi giuridici, l’evoluzione normativa in materia sottende un mutamento di prospettiva politica e ideologica sul concetto stesso e sulla funzione del patrimonio culturale.
2.1 La pubblicità sui/nei beni culturali.
Come anticipato, la regola generale della pubblicità sui/nei beni culturali è il divieto non assoluto, che può essere derogato dalla Soprintendenza con autorizzazione o nulla osta/assenso, quando i cartelli non arrechino danno all’aspetto, al decoro e alla pubblica fruizione dei beni culturali e comunque quando non siano incompatibili con il carattere artistico e storico. Le sanzioni sono previste dall’art. 162 CBC, che richiama l’art. 23 del codice della strada[xi].
La semplice lettura delle norme in materia, in prospettiva diacronica, evidenzia una diversa valutazione politica/ideologica dell’istituto. L’art. 22 l. 1° giugno 1939, n. 1089, vietava il collocamento o l’affissione di manifesti, cartelli, iscrizioni e altri mezzi di pubblicità lesivi dell’aspetto, del decoro del pubblico godimento degli immobili di interesse culturale, lasciando quindi all’interprete la valutazione sul rispetto o meno dei valori architettonici dei beni culturali. L’art. 23 comma 3 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, (codice della strada), dal canto suo prescriveva un divieto inderogabile di collocazione di cartelli e altri mezzi pubblicitari lungo le strade, nell’àmbito e in prossimità di luoghi sottoposti a vincoli di tutela di bellezze naturali o paesaggistiche o di luoghi di interesse storico o artistico, a tutela sia della funzione artistica o architettonica dei beni culturali sia della sicurezza stradale (la réclame distrae gli auto/motociclisti). L’art. 40 d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, (TUBC), recepiva l’art. 22 l. 1° giugno 1939, n. 1089, prevedendo tuttavia la possibilità di un’autorizzazione in deroga, con riguardo alla pubblicità su edifici e altri luoghi di interesse storico artistico o in prossimità di essi e lungo le strade site nell’àmbito o in prossimità di edifici e luoghi di interesse storio e artistico. Infine l’art. 49 CBC in modo analogo ha disciplinato la collocazione o l’affissione di cartelli o altri mezzi di pubblicità sugli edifici e nelle aree tutelati come beni culturali, lungo le strade site nell’àmbito o in prossimità dei beni culturali e sulle coperture dei ponteggi predisposti per l’esecuzione degli interventi di conservazione (da evidenziare la soppressione dell’originario divieto di collocazione di cartelli o altri mezzi di pubblicità anche “in prossimità” dei beni di interesse storico e artistico). Contestualmente l’art. 184 CBC ha abrogato l’art. 23 comma 3 d.lgs. n. 285 del 1992. Nel periodo 1999-2004 si è passati dunque da un regime inibitorio puro a un regime autorizzatorio; inoltre, la disciplina, che prima riguardava immobili di interesse culturale è ora incentrata sugli edifici e aree tutelati come beni culturali[xii]. Dunque, al di là del maquillage normativo, qui come altrove aleggia lo spirito liberale (o neoliberale) che anima il codice del 2004: la pubblicità, dapprima esclusa o fortemente osteggiata, ha fatto accesso nel sancta sanctorum del patrimonio culturale trovando ampi spazi di legittimazione.
2.2. La pubblicità con i beni culturali.
Non è raro il caso che la pubblicità strumentalizzi beni culturali, associando opere d’arte a merci o servizi. Qualunque esempio farebbe il gioco delle imprese commerciali che fanno ricorso a questa pratica. Quid juris a proposito dello sfruttamento non autorizzato della notorietà del bene culturale? Il soggetto privato o l’Amministrazione pubblica cui appartiene il bene culturale può adire l’autorità giudiziaria per impedire lo sfruttamento commerciale del bene medesimo e/o ottenere il risarcimento del danno? La risposta sarebbe positiva se il proprietario privato o l’Amministrazione pubblica disponesse del diritto esclusivo allo sfruttamento dell’immagine abbinata al bene culturale.
Per le persone fisiche la fonte del diritto esclusivo allo sfruttamento promozionale della propria immagine scaturisce dal diritto fondamentale al nome e all’immagine inerente alla persona. Ciò non può valere per il bene culturale, in quanto appartenente alla Nazione, oltre che alla persona (pubblica o privata) che ne ha la proprietà. Piuttosto le condizioni del diritto allo sfruttamento commerciale del bene culturale sono disciplinate dalla legge. L’art. 107 CBC stabilisce che «Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono consentire la riproduzione nonché l’uso strumentale e precario dei beni culturali che abbiano in consegna, fatte salve le disposizioni di cui al comma 2 e quelle in materia di diritto d’autore.». L’art. 108 CBC prevede il pagamento di un corrispettivo per la riproduzione, salvo il caso dello scopo per uso personale, per motivi di studio o per finalità di valorizzazione dei beni da parte di soggetti pubblici che non dà luogo a pagamento. Sono in ogni caso libere le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. Quindi, l’art. 108 CBC, per il fatto di subordinare a concessione la riproduzione di beni culturali di appartenenza pubblica con scopo di lucro vieta lo sfruttamento commerciale delle immagini dei beni culturali di appartenenza pubblica.
Coerentemente il Tribunale di Firenze, con ordinanza del 26 ottobre 2017 (RG. N. 13758/2017)[xiii] ha sancito il divieto di usare e riprodurre su tutto il territorio italiano ed europeo l’immagine abusata (nel caso di specie, il David di Michelangelo) su volantini, siti e souvenir, in assenza di autorizzazione. Il Tribunale di Palermo con ordinanza del 21 settembre 2017 ha accolto la domanda risarcitoria proposta dalla Fondazione Teatro Massimo nei confronti di un istituto bancario che aveva realizzato una campagna promozionale mediante affissioni riproducenti la fotografia del Teatro[xiv]. In entrambi i casi i giudici hanno fatto leva sugli artt. 107 e 108 CBC.
Ci si chiede se una condotta abusiva di abbinamento di un bene culturale a una merce presenti risvolti penalistici. Qualora il bene culturale fosse soggetto al diritto di autore, l’illegittima riproduzione dell’immagine integrerebbe il reato di cui all’art. 171 ss. l. 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore (non il reato di cui all’art. 518 quaterdecies c.p., già 178 CBC, poiché in tal caso l’autore materiale fraudolentemente attribuisce ad altri un’opera propria). Il diritto di autore, comunque, non opera con riguardo a creazioni cadute in dominio pubblico (l’art. 25 l. n. 633, cit., limita i diritti di utilizzazione economica a 70 anni dopo la morte dell’autore mentre non sono soggette a limitazioni temporali le azioni a tutela del diritto morale delineato dall’art. 20 dello stesso testo normativo).
2.3. La pubblicità-bene culturale.
Infine, non sono rari i casi in cui le creazioni pubblicitarie costituiscano opere d’arte e, del caso, beni culturali. Benché si affermi che l’advertising sia stata inventata nel 1786, allorché William Tayler aprì a Londra una agenzia a Warwick Square, per far conoscere l’attività degli stampatori[xv], piace immaginare che il primo esempio di propaganda commerciale consista nel monumento sepolcrale del fornaio Eurisace, a Roma, in cui gli eredi vollero tramandare ai posteri il ricordo del proprietario defunto e contestualmente promuovere l’impresa commerciale caduta in successione: stando così le cose quel reperto archeologico sarebbe al contempo un bene culturale (per noi) e una vetrina pubblicitaria (per gli antichi). Con l’avvento dell’era moderna la combinazione di arte e réclame è divenuta una pratica consueta, poiché – come è noto – lo spirito del capitalismo strumentalizza ogni cosa, ivi compresa la bellezza, per perseguire i suoi scopi di massimizzazione dei profitti. E così il marketing ha arruolato schiere di artisti per nobilitare ciò che nel Mondo di ieri gli aristocratici, i militari e gli hommes du roi consideravano poco rispettabile. Per primo Henri de Toulouse Lautrec con i suoi colori accese una luce nuova su un luogo di perdizione quale era il Moulin Rouge. Negli stessi anni Alphonse Mucha legò la sua fortuna a quella di celebri marchi di champagne, biscotti e molto altro[xvi]. Era nata l’arte pubblicitaria, in cui per la prima volta era la bellezza a fare da ancella al commercio[xvii] (e non il contrario, come nell’epoca d’oro del mecenatismo vero). È accaduto quindi che l’industria pubblicitaria, oltre a informare i consumatori sull’esistenza e sulla qualità delle merci e a produrre segni, immagini e sistemi di segni, al fine di manipolare gusti e desideri[xviii], ha talvolta favorito la creazione di vere e proprie opere d’arte: caso raro di connubio virtuoso tra mondi una volta lontanissimi.
2.4. La pubblicità per i beni culturali.
Nel capo II del titolo II del Codice dei beni culturali dedicato alla valorizzazione dei beni culturali, l’art. 120 è dedicato alla sponsorizzazione. Ivi si legge, nel testo attuale, quale scaturisce dalla modifica introdotta dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62: «1. È sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante. Possono essere oggetto di sponsorizzazione iniziative del Ministero, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali nonché di altri soggetti pubblici o di persone giuridiche private senza fine di lucro, ovvero iniziative di soggetti privati su beni culturali di loro proprietà. La verifica della compatibilità di dette iniziative con le esigenze della tutela è effettuata dal Ministero in conformità alle disposizioni del presente codice. – 2. La promozione di cui al comma 1 avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di sponsorizzazione. – 3. Con il contratto di sponsorizzazione sono altresì definite le modalità di erogazione del contributo nonché le forme del controllo, da parte del soggetto erogante, sulla realizzazione dell’iniziativa cui il contributo si riferisce.».Dunque, mentre da un lato la pubblicità ordinaria collega occasionalmente una merce a un bene o a una attività culturale, dall’altro lato mediante i contratti di sponsorizzazione si realizza un abbinamento costante tra il bene culturale e la promozione dello sponsor, nei termini di un do ut facias: lo sponsor (soggetto privato) sostiene finanziariamente la tutela o la valorizzazione del patrimonio culturale; il soggetto sponsorizzato (sponsee) si obbliga a consentire al privato erogatore l’abbinamento del nome, marchio, immagine, attività o prodotto di questi all’iniziativa culturale oggetto del contributo, in vista dei vantaggi di autopromozione o di ritorno di immagine[xix]. Per quanto il Codice menzioni espressamente il solo obiettivo promozionale, la causa negoziale, come si evince dalla norma è duplice: da una parte la propaganda del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto id est merce del soggetto erogante (sponsor); dall’altra il contributo economico mediante erogazione di fondi, mezzi e attrezzature alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale.
I (molti) fautori dell’istituto ne magnificano il ruolo integrativo o addirittura sostitutivo dei finanziamenti pubblici in un settore strategico del nostro Paese, anche in momenti di crisi ed emergenza[xx] ed affermano che la condizione inderogabile della sponsorizzazione, la compatibilità dell’obiettivo promozionale (id est pubblicitario) perseguito con il carattere artistico o storico, con l’aspetto e con il decoro del bene culturale da tutelare o da valorizzare, consente di fugare ogni dubbio sulla possibile commercializzazione del patrimonio culturale[xxi]. Eppure, il requisito della compatibilità con le esigenze di tutela è di difficile interpretazione perché la legge: a) non detta criteri generali sulla base dei quali consentire la relativa verifica; b) non definisce le “iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale”[xxii]; c) non disciplina l’ipotesi in cui l’astratta compatibilità ex ante si trasformi ex post – di fatto – in una condotta incompatibile con le esigenze di tutela. Eppure, il solo fatto dell’abbinamento di un marchio commerciale a un bene culturale veicola l’idea che il patrimonio culturale sia allo stesso livello di qualunque altra merce, senza considerare il modo con cui, in concreto, la sponsorizzazione è stata attuata, dal 2004 in poi.
Quanto poi ai sottili distinguo elaborati da dottrina, vòlti a mettere in dubbio che il contratto di sponsorizzazione costituisca una species del contratto di pubblicità[xxiii], si tratta di giochi verbali raffinati, non idonei ad ingannare il senso comune, che facendo leva sulla littera legis (art. 120 comma 1: « È sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo … con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante.») coglie con immediatezza l’identità di ratio: diffondere tra il pubblico un ritorno di immagine dello sponsor e tramite questa delle sue attività imprenditoriali. E la propaganda dell’immagine di un operatore commerciale, al fine di far crescere la fiducia dei consumatori, è l’essenza dei consigli per gli acquisti.
Il contenuto economico/finanziario del contratto in parola si apprezza anche mediante l’analisi della norma in chiave diacronica: nel testo originario si definiva “sponsorizzazione di beni culturali ogni forma di contributo in beni e servizi da parte di soggetti privati alla progettazione o all’attuazione di iniziative…”. Ciò induceva la dottrina ad escludere che il contributo dello sponsor potesse consistere in erogazione pecuniaria e a qualificare “tecnica o interna” la sponsorizzazione culturale. Con la novella del 2008 si è aggiunto un “anche”:“È sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato …”;l’ampia dicitura induce a ritenere cheil contributo dello sponsor possa consistere anche in una dazione di denaro. Non sembra peraltro che l’art. 199 bis del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, modificato dal d.-l. 9 febbraio 2012, n. 5) recante un’apposita disciplina di selezione dei contraenti per le sponsorizzazioni di beni culturali, abbia modificato la sostanza del contratto, anche perché con il gioco dei rinvii non è chiaro se esso sia in toto o in parte escluso dal codice dei contratti pubblici[xxiv].
In breve: sponsorizzazione d’arte vuol dire finanziare attività culturali e al contempo magnificare l’erogante. Ancora una volta emerge il connubio mercato-patrimonio culturale, alquanto gradito agli ideologi e agli operatori del primo, e giudicato con sospetto dagli amanti del secondo.
3. Critica. Pubblicità e cultura, pubblicità vs cultura.
Il Pensiero unico di matrice neoliberale da anni esalta la sponsorizzazione dell’arte come utile (una risorsa straordinaria per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale), necessaria (il rimedio alle innegabili difficoltà finanziarie della gestione pubblica del patrimonio culturale), moderna (una forma eccellente di partenariato tra pubblica amministrazione e soggetti privati); la legislazione di settore ha aderito prontamente alla moral suasion che proviene dai nuovi sedicenti mecenati, disciplinando l’istituto dapprima in modo discreto e generico (l. n. 449 del 1997; d.lgs. n. 267 del 2000), poi in modo compiuto (d.lgs. n. 42 del 2004, CBC), in séguito (d.lgs. n. 62 del 2008) ampliando l’àmbito applicativo del contratto di nuovo conio.
Eppur si move! Contro la mitologia dominante in questi tempi di fato avverso, qui si sostiene che la sponsorizzazione dell’arte sia una contraddizione in termini, un assurdo, degno della modernità liquida in cui viviamo, anche quando non perviene agli esiti mostruosi della sponsorizzazione del restauro del palazzo Ducale di Venezia (e a molti altri orrori, a Firenze, Milano e Roma).
Ed infatti, a cosa “serve” la Cultura? Se è vero che “Cultura” è sinonimo di humanitas[xxv], il suo scopo è la conservazione e l’accrescimento di ciò che pertiene all’uomo e lo distingue dalle bestie (e, ora, dai robot). In due parole, Dante direbbe: “seguir virtute e conoscenza”. E poi, in una dimensione civica, serbare “il sentimento collettivo dei valori, dei princìpi e della memoria”[xxvi] che è anche l’unico modo per preservare la misura umana delle cose, una volta che l’Io senza limiti abbia smarrito il timor di Dio. E ancora, sviluppare il senso storico e critico, che è l’unico antidoto alla credulità[xxvii] e all’innata propensione all’auto-asservimento.
Conoscere con approccio storico e critico (e non in modo inutilmente erudito, alla Don Ferrante) i manufatti e le vicende degli antichi infatti consente:
1) di coltivare il senso del Bello, che è la traccia divina nel mondo, l’alimento dello spirito, lo strumento di elevazione dell’essere umano dalla sua componente materiale;
2) di conformare un’estetica non disgiunta dall’etica e quindi rispettosa dell’umanità (a ciò educa, ad es., l’armonia rinascimentale);
3) di conservare il sentimento identitario dei popoli[xxviii], cemento invisibile della coesione sociale (e, per gli italiani, in particolare, fondamento dell’unità nazionale, periodicamente messa in discussione dai barbari nostrani);
4) di favorire la concentrazione, la meditazione, forse anche la preghiera (il Beato Angelico del convento di San Marco ispira questo e altro);
5) di alimentare lo stupore e l’aspirazione all’immortalità (ciò suggeriscono, ad es., il barocco romano e le cupole del Guarini);
6) di contrastare con la virtù civile e con il sentimento morale le inestirpabili tendenze al servilismo, all’accattonaggio, al falso, alla divisione politica o alla dipendenza culturale esterofila, che riemergono di generazione in generazione (all’idea moderna della “cultura come resistenza”[xxix] esortano ad es., il David e il Bruto di Michelangelo e i Tirannicidi del Museo archeologico di Napoli).
Tutto ciò si deduce soprattutto a contrario. Poiché i valori dello spirito sono immateriali, la loro essenza si comprende bene soprattutto quando vengono meno; ciò vale per la Cultura così come per la fede pubblica e per tutto ciò che non si può misurare. Ed infatti, la scomparsa del senso del Bello ha generato la non-arte contemporanea e l’assuefazione all’orrido; lo smarrimento dell’estetica responsabile ha partorito il Corviale e gli altri innumerevoli eco-mostri in Italia e altrove; dalla perdita del sentimento identitario sono sorti il disinteresse verso il flusso ininterrotto di opere d’arte verso l’estero, l’astensionismo elettorale, la disaffezione per la politica, la tolleranza verso amministratori locali, regionali e statali ignoranti, inadeguati o corrotti; grazie all’amnesia delle vicende storiche nazionali ecco venire a galla nuovi Cesari senza corona, moderni Salvatori della Patria in doppiopetto, atei devoti, Unti del Signore, ecc.; dalla riemersione dell’innata tendenza italica al servaggio, deriva la mercificazione/turistificazione dei centri storici delle città d’arte omologati, degradati e svuotati degli abitanti (Venezia in primis). In tempi antichi la dispersione delle opere d’arte in conseguenza di conquiste militari ha favorito la sparizione di intere civiltà (e quello era lo scopo degli invasori).
Dunque, dalle conseguenze del ripudio della Cultura si comprende l’essenza della Cultura stessa, che è quella di formare gli uomini e educare i cittadini, di reagire al degrado estetico e morale e quindi combattere la barbarie. Per questo motivo la Costituzione all’art. 9 ha attribuito alla Repubblica l’obbligo (non la facoltà) di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione[xxx], senza altra aggiunta: evidentemente i Padri Costituenti, provvisti di conoscenza storica e intrisi di studi classici, erano consapevoli che il valore identitario del paesaggio e del patrimonio storico-artistico è l’in sé della Nazione[xxxi].
Se la Cultura attiene al mondo delle cose invisibili, diviene palese che il connubio con il Mercato, che appartiene all’ordine delle cose visibili, tangibili e soprattutto monetizzabili, risulta problematico. La Cultura si avvale (o dovrebbe avvalersi) delle armi della conoscenza storica, della ricerca e del rigore scientifici, della critica anche corrosiva. La pubblicità invece si serve delle arti della lusinga, della persuasione, della manipolazione. Quando i linguaggi si confondono può nascere una sinfonia o qualcosa di mostruoso (ed in effetti, in più di una occasione, è stato partorito un mostro).
Quali sono dunque i pericoli connessi alla tanto magnificata sponsorizzazione dell’arte?
Gli ultimi umanisti paventano un effetto che attinge la sfera delle idee. Il matrimonio (di interesse) tra cultura e denaro, in forza del quale il secondo finanzia la prima e questa dà lustro ai detentori del secondo, alla lunga logora la concezione per cui i beni culturali hanno lo scopo di promuovere il nutrimento dell’anima e come tali appartengono a un ordine “altro”, extra commercium, quindi sottratto alle fauci di chi possiede tutto il resto della vita. Nel momento in cui la Cultura scende a patti con il Mercato, accettando che i monumenti siano coperti di manifesti pubblicitari, che le mostre siano finanziate dai capitani di industria, che i fondi per i restauri siano graziosamente elargiti da munifici mecenati, ecc., fa nascere e prosperare l’opinione per cui il bene culturale è un bene di consumo così come ogni altro, al più un passatempo o un’occasione di distrazione o svago[xxxii]. Scrive Montanari: «La conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare forse vincere questa epidemia di disumanizzazione … Coprire Palazzo Ducale a Venezia di cartelloni pubblicitari, usare il Colosseo per vendere scarpe significa far conquistare al consumismo sfacciato anche i luoghi che dovrebbero lenire e curare le conseguenze di quello sfacciato consumismo … Significa fare ammalare la medicina.»[xxxiii].
Poi, più in concreto, la liaison dangereuse denaro-cultura insita nel contratto di sponsorizzazione potrebbe legittimare benefattori di incerta virtù[xxxiv], più o meno come è accaduto a Ottaviano Augusto, a Lorenzo il Magnifico, al granduca Cosimo e molti altri, da (quasi) tutti celebrati come protettori delle arti più che come assassini e liberticidi[xxxv].
Ancora, la sponsorizzazione collegata all’impiego di siti museali per attività non pertinenti (ad es., sfilate di moda, come è avvenuto più volte), in nome della promozione del Made in Italy – forma elegante della metafora funesta del petrolio d’Italia[xxxvi] – rischia di ingenerare effetti sulla nostra credibilità internazionale del tutto opposti a quelli auspicati, tra cui l’idea che siamo disposti a tutto pur di incassare qualche dollaro.
L’evidente favor normativo nei confronti dei contratti di sponsorizzazione, incentivati da laute agevolazioni fiscali (dalla l. 2 agosto 1982, n. 512, in poi), rende punto appetibili le erogazioni liberali, ossia le donazioni senza compenso, che sono il marchio dei mecenati veri: per quale motivo dare a fondo perduto quando chiunque chiede ottiene?
Appartiene all’ovvio che le sponsorizzazioni siano utili, ma occorre che rispettino il contesto in cui operano. Ed invece, quali contropartite hanno preteso, pretendono e soprattutto pretenderanno i dona ferentes? La mancanza di regole certe, ferree nel chiarire che in questi contratti la salvaguardia dei valori cui è preposto il patrimonio culturale deve prevalere sulla tutela delle esigenze del mercato[xxxvii], rischia di ingenerare nei funzionari ministeriali e nei direttori dei siti museali un sentimento di inferiorità nei riguardi dei benefattori; dal passaggio dall’ossequio all’assoggettamento, potrebbe scaturire par ricochet il degrado dell’offerta culturale, la consacrazione di figure artistiche non meritevoli di tanto riguardo, la promozione di collezioni private riferibili ai munifici finanziatori, la prostituzione del patrimonio culturale a scopi elettorali o commerciali.
Questi rischi si sono concretizzati, più volte, allorché pre-potenti multinazionali hanno trasformato monumenti di fama mondiale in enormi cartelloni pubblicitari, superando di molto la soglia del kitsch.
Ma cosa importa? Nell’era del Privato, “L’importante è fare contenti gli sponsor !”[xxxviii]
[i] D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2018, p. 116.
[ii] N. Klein, No Logo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2000, p. 171 ss.
[iii] D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 86.
[iv] Sul punto, T. Scitovsky, The Joyless Economy: The Psychology of Human Satisfaction, Oxford University Press, New York 1976, p. 5 ss.; D. Harvey, L’enigma, cit., p. 33, con specifico riguardo alla sponsorizzazione e agli investimenti nel cd. capitale culturale.
[v] Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 33: «Per conquistarsi l’emancipazione l’economia liquida moderna focalizzata sul consumatore fa leva sull’eccesso delle vendite, sul loro invecchiamento sempre più rapido e sul pronto dissolversi del loro potere di seduzione, il che, detto per inciso, fa di essa una economia della prodigalità e dello spreco…. La continua produzione di nuove offerte e il volume in ascesa costante di beni offerti sono necessari anche per mantenere elevata la velocità di circolazione dei beni, per rinfrescare continuamente il desiderio di sostituirli con beni nuovi e migliorati.».
[vi] D. Harvey, L’enigma, cit., p. 197.
[vii] N. Klein, No Logo, cit., p. 115 s.
[viii] D. Harvey, La crisi, cit., p. 351.
[ix] D. Harvey, op. ult. cit., p. 153.
[x] A. Zhok, Fenomenologia e genealogia della verità, Jaca Book, Milano 1998, passim.
[xi] V. Caputi Jambrenghi, Commento all’art. 162 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in A. M. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi, (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Giappichelli, Torino 2005, p. 417 ss.; M. A. Sandulli, Commento all’art. 162 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in G. Leone, A. L. Tarasco, (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Cedam, Padova 2006, p. 957 ss.
[xii] Sul punto, v. Iannotta, Art. 49. Manifesti e cartelli pubblicitari, in M. A. Sandulli,(a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, modificato con i decreti-legge 24 marzo 2006, nn. 156 e 157),Giuffrè, Milano 2006, p. 390. In materia, cfr. anche F. Baldi, Commento all’art. 49 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in G. Trotta, N. Aicardi, (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio,(prima parte), in Le nuove leggi civili commentate, 2005, n. 5-6, p. 1271 ss.; Guzzardo, Commento all’art. 49 d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 4, in A. M. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi, (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., p. 157ss.; Vaiano, Commento all’art. 49, in G. Leone, A. L. Tarasco, (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., p. 370 ss.
[xiii] In https://aedon.mulino.it/archivio/2017/3/ordinanza.pdf.
[xiv] In https://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/12/02/news/sentenza_storica_a_palermo_solo_il_massimo puo_usare_foto_del_teatro-182810133.
[xv] Cfr. M. Tungate, Storia della pubblicità. Gli uomini e le idee che hanno cambiato il mondo, F. Angeli, Milano 2010, p. 25.
[xvi] Sul punto, cfr. T. Sato, Alphonse Mucha, catalogo della mostra tenutasi a Roma, Complesso del vittoriano, Ala Brasini, Ginevra-Milano 2016, p. 61 ss.
[xvii] Cfr. D. Harvey, La crisi, cit., p. 86: «L’uso della pubblicità come arte ufficiale del capitalismo porta le strategie pubblicitarie nell’arte e l’arte nelle strategie pubblicitarie».
[xviii] Cfr. D. Harvey, La crisi, cit., p. 351.
[xix] In questo senso, con riguardo specifico alla sponsorizzazione di spettacoli, v. App. Bologna, 27 marzo 1997 n. 440, SIAE contro Associazione Bologna Festival, in Dir. aut. 1997, p. 482.
[xx] Cfr. A. Ferretti, Mecenatismo culturale e sponsorizzazione, in www.altalex.com/documenti /news/2008/03/27/.
[xxi] Cfr. L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl. 2001, p. 679.
[xxii] Cfr. G. Piperata, Servizi per il pubblico e sponsorizzazione di beni culturali: gli artt. 117 e 120, in Aedon 2008, n. 3, p. 3.
[xxiii] Cfr. S. Gatti, voce Sponsorizzazione, in Enc. del Dir., XLIII, Giuffrè, Milano 1990, p. 509 ss. Contra, D. A. Aniceti, Lo sfruttamento pubblicitario della notorietà tra concessione di vendita e contratto di sponsorizzazione, nota a Cass. civ., 11 ottobre 1997, n. 9880, in Giust. civ. 1998, p. 1060; B. Inzitari, Sponsorizzazione, in Contratto e impresa 1985, p. 248, secondo cui la sponsorizzazione è “prima di tutto un atto di commercio”. Sul contratto di sponsorizzazione, v., ex plurimis, M. V. De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, Cedam, Padova 1988; C. Verde, Il contratto di sponsorizzazione, E.S.I., Napoli 1989; G. Clemente di San Luca, (a cura di), Tutela, promozione e libertà dell’arte in Italia e negli Stati Uniti, Giuffrè, Milano 1990; R. Veiga, (a cura di), Mecenatismo e sponsorizzazione a favore dello spettacolo e delle arti visive: Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Editoriale Scientifica, Napoli 1991; V. Zeno Zencovich, F. Assumma, Pubblicità e sponsorizzazione, Cedam, Padova 1991; R. Rossotto, C. Elestici, I contratti di pubblicità. Il contratto di agenzia. Il contratto di sponsorizzazione, Giuffrè, Milano 1994.
[xxiv] V., sul punto, P. Carpentieri, La sponsorizzazione dei beni culturali, in https://www.treccani.it/enciclopedia/la-sponsorizzazione-di-beni-culturali_(Il-Libro-dell’anno-del-Diritto) 2016.
[xxv] N. Abbagnano, voce Cultura, in Grande Dizionario Enciclopedico Utet, V, Torino 1968, p. 756: «La parola corrisponde ancor oggi a ciò che i Greci chiamavano paidèia e che i Latini, al tempo di Cicerone e di Varrone, indicavano con la parola humanitas, l’educazione dell’uomo come tale, cioè l’educazione dovuta a quelle ‘buone arti’ che sono proprie soltanto dell’uomo e che lo differenziano da tutti gli altri animali (Aulo Gellio, Notti Attiche, XIII, 17)».
[xxvi] Espressioni di S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014, p. 107.
[xxvii] T. Montanari, Privati del patrimonio, Einaudi, Torino 2015, p. 143.
[xxviii] Sul significato identitario e sulla funzione civile dei beni culturali già negli Stati italiani preunitari, cfr. S. Settis, Presentazione, in G. Leone, A. L. Tarasco, (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., p. XXV.
[xxix] T. Montanari, V. Trione, Contro le mostre, Einaudi, Torino 2017, p. 140.
[xxx] Sul contenuto precettivo dell’art. 9 Cost., v. C. cost., sent. 27 giugno 1986, n. 151, in Foro it. 1986, I, 2708.
[xxxi] Sull’argomento, cfr., tra gli altri, G. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Giuffrè, Milano 2002, p. 203; S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Mondadori Electa, Milano 2005, pp. 73, 271; Id., Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002, p. 21.
[xxxii] Sul punto, M. Fumaroli, L’État culturel. Essai sur une religion moderne, LGF/Livre de Poche, Paris 1992, p. 280.
[xxxiii] T. Montanari, Privati del patrimonio, cit., pp. XIII, 154.
[xxxiv] T. Montanari, op. ult. cit.,p. 54 ss.
[xxxv] Sul punto, cfr., tra gli altri, G. Spini, Cosimo I e l’indipendenza del principato mediceo, Vallecchi, Firenze 1980, passim. Sul rapporto tra mecenatismo e libertà nel Seicento, F. Haskell, Mecenati e pittori. L’arte e la società italiana nell’età barocca, Einaudi, Torino 2000, p. 383 ss.
[xxxvi] Espressione di M. Pedini (Pedini, Beni culturali e società del futuro, in Ateneo di Brescia, Comune di Brescia, [a cura di], Scritti in onore di Gaetano Panazza, Brescia 1994, p. 10). Il primo a propugnare la “valorizzazione economica” del patrimonio storico-artistico, a quanto pare, fu il ministro De Michelis, durante un convegno organizzato nel 1985 a Firenze (atti in AA. VV., Le mura e gli archi. Valorizzazione del patrimonio storico artistico e nuovo modello di sviluppo, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 90). L’analoga locuzione “Tesoro d’Italia” si deve a G. Urbani (Urbani, Il Tesoro degli Italiani. Colloqui sui Beni e le Attività Culturali, Mondadori, Milano 2002). Sul punto, in chiave aspramente critica, T. MONTANARI, Privati del patrimonio,cit., p. 4 ss.
[xxxvii] In senso aspramente critico, v., sul punto, T. Montanari, Privati del patrimonio, cit., p. 45: «Il messaggio di sudditanza e debolezza trasmesso dallo Stato italiano agli sponsor privati si lascia ben riassumere nello slogan che campeggiava sul cartellone pubblicitario di un grande marchio automobilistico issato qualche anno fa… sui monumenti di Piazza san Marco a Venezia: ‘Non rispettare le regole, dettale!’».
[xxxviii] Così si esprime il datore di lavoro del protagonista del recentissimo film La quattordicesima domenica del tempo ordinario di Pupi Avati.