Per avere distrazioni bisogna scrivere delle opere o essere innamorati
(dalla lettera di Giuseppe Verdi a Teresa Stolz datata 3 maggio 1900)
1. Un fiume di Storia
Nel confuso vociare di Piazza Navona la gru dei pompieri sale lentamente e raggiunge la sommità della facciata di Sant’Agnese per assicurare un cavo d’acciaio dietro al timpano: servirà per consentire alla vecchia Befana di scivolare da lassù fino a terra, come se arrivasse direttamente dal cielo, per lo stupore gioioso almeno dei bambini.
A dire la verità, ben sapendo quanto siano ormai disincantati gli odierni bambini, sulla ipotizzata gioia loro indotta da tale spettacolo nutro qualche dubbio; pienamente condiviso, a quanto sembra, dai Grandi Fiumi che, indifferenti anche a quelle manovre epifaniche, come al solito si specchiano tranquilli nell’acqua tersa della fontana.
Per la precisione, sono solo tre di loro, essendone il Nilo oggettivamente impedito dal telo che gli ricopre il capo, con evidente allusione al mistero delle sue origini, al tempo del Bernini e del Fancelli non ancora individuate. Non per questo, tuttavia, può dirsi che il Nilo abbia una presenza meno significativa nella splendida piazza.
2. Il ricordo del Canova, nel bicentenario che lo celebra, ci riporta all’Egitto
L’Egitto è un tema ricorrente e di straordinaria attualità nell’anno appena conclusosi, legato alla celebrazione del secondo anniversario della morte di Antonio Canova.
L’artista, spentosi a Venezia il 13 ottobre 1822, era notoriamente attento studioso della cultura e dell’arte egizia, tanto da richiamarle direttamente nelle sue opere e, soprattutto, nei monumenti funebri, alcuni dei quali soltanto progettati, come la tomba ideata per Tiziano Vecellio, altri invece effettivamente realizzati,come il cenotafio dell’Arciduchessa Maria Cristina d’Austria, commissionatogli dal di lei marito quando lei era ancora in vita (si ignora se soltanto per grandissimo, previdente amore).
Il soggetto della morte era stato ripetutamente affrontato dal Canova, in particolare nella sua piena maturità, inducendolo a rappresentarla non come il termine definitivo dell’esistenza, ma come momento necessario del passaggio, scandito dal cordoglio pacato e raccolto del corteo funebre, dalla vita terrena ad una realtà diversa e sconosciuta in cui entrare varcando la soglia di una piramide, simbolo per antonomasia dell’architettura egizia.
Il suo incontro con quest’ultima era, infatti, molto facile a Venezia, sua residenza per lunghi anni tra la seconda metà del Sette e i primi decenni dell’Ottocento, perciò fino alla morte, e città in cui la frequentazione con le tracce del mondo egizio non era certamente difficile. La Serenissima aveva, infatti, intrattenuto da sempre intensi contatti con l’Egitto, dovuti non soltanto alla sua tradizionale vocazione marinara e commerciale nel Mediterraneo, ma soprattutto al suo antico legame con San Marco.
Questi, oltre ad essere stato fondatore della chiesa copta alessandrina, era stato anche l’evangelizzatore della Decima Regio, alla quale la Venetia e l’Istria appartenevano, e la cui importanza era felicemente cresciuta sotto il governo di Aquileia.
La straordinaria vicinanza spirituale e la costante fedeltà di Venezia al Santo erano divenute, poi, talmente profonde e note da indurre l’imperatore bizantino Eraclio a donare al Patriarca di Grado la Cattedra dell’evangelista, fino ad allora conservata ad Alessandria. Quel dono, andato ad arricchire il Tesoro marciano di cui ancora oggi fa parte, era stato determinante per conferire a quella Regio la massima autorevolezza.
Ed è proprio a San Marco che Venezia deve la sua indiscussa autonomia politica e religiosa, nonché la persistenza intatta della sua millenaria relazione con Alessandria d’Egitto. Dal suo porto erano salpati, nel lontano 828, Bono e Rustico, i due mercanti che, riusciti a trafugare il venerato corpo del Santo, lo avevano fatto approdare sulle rive della Laguna dove, mentre lo trasportavano attraverso Rivo alto, un angelo luminoso era loro apparso indicando quel luogo come il predestinato dal Cielo per la sepoltura definitiva del Santo Evangelista.
Da allora si era aperta una vera e propria Rotta del levante, battuta da navi sempre più numerose che, specie dal medioevo in avanti, trasportavano sulle coste dell’Africa settentrionale intraprendenti mercanti, diplomatici incaricati di tessere relazioni con nuovi Paesi, pellegrini diretti in Terra Santa. Venezia era divenuta ormai il miglior punto d’imbarco per tutti i viaggiatori che, pur motivati da interessi diversi, erano ugualmente incoraggiati a raggiungere l’Oriente mediante la traversata per mare, sia per i suoi tempi più brevi rispetto a quelli del percorso via terra, sia perché protetti dalla speciale sicurezza del viaggio, garantita dalle Mude, veri e propri convogli di imbarcazioni in navigazione simultanea, organizzati e finanziati dallo stesso Stato veneto.
A questo specifico fine era stato concretizzato un sistema di rapporti stabili tra Occidente e Oriente che, ulteriormente sviluppatosi nel tempo, sarebbe poi culminato nel 1869 con l’apertura del Canale di Suez. In realtà, Venezia aveva già elaborato quel progetto nel 1504, affidandone la “Commissione” al proprio ambasciatore in Egitto, espressamente incaricato di adoperarsi per “tagliare la terra a Suez”. L’idea era risultata evidentemente prematura per quel momento, date le oggettive difficoltà di esecuzione; e, anche quando, secoli dopo, era stata ripresa da Napoleone nel corso della sua sciagurata Campagna d’Egitto, i suoi tecnici l’avevano stroncata, essendo incappati in un errore di calcolo talmente clamoroso da indurli a sostenere l’impossibilità per un canale di mettere in comunicazione due mari divisi tra loro da un altissimo dislivello come il Rosso e il Mediterraneo.
3. Egitto e Venezia: un legame profondo e duraturo
Per Venezia, dunque, l’Egitto era un luogo che, seppur esotico e misterioso, aveva per essa una dimensione quasi familiare da parecchi secoli; lo testimoniano le innumerevoli riproduzioni di decori, costumi, monili egizi assai frequenti nella città lagunare, così come l’utilizzo comune e domestico di ceramiche, tappeti, stoffe pregiate e dei più svariati oggetti importati da Alessandria, nonché monete, statuette votive, amuleti, recuperati ancora per lungo tempo dopo la caduta della Serenissima, nei suoi canali e in Laguna.
Questo può spiegare il perché Venezia, ispirandosi al vessillo di Baybars, il sovrano de Il Cairo noto come il Leone d’Egitto, fin dal Milleduecento avesse scelto come simbolo identificativo della città il leone marciano. Un Egitto ripetutamente evocato anche dalle immagini fantastiche che popolano le opere di tanti artisti veneti, da Giorgione a Tiepolo, da Tiziano a Veronese, a Gentile e Giovanni Bellini, a Paolo Veneziano, ovvero, anche se in modo diverso perché prettamente tecnico, del Serlio, il cui Terzo libro di disegni è interamente dedicato alla piramide di Cheope ed alla sua misurazione, basata sui calcoli di altissima precisione di Marco Grimani, il Patriarca di Aquileia che, già nel Cinquecento, l’aveva studiata meticolosamente.
Tornando al Canova, è opportuno ricordare che un’ulteriore occasione di richiamo all’arte egizia era stata per lui il viaggio compiuto a Parigi, su invito di Napoleone, che gli aveva consentito di ammirare direttamente molti dei reperti archeologici che lo stesso Bonaparte aveva portato con sé dall’Egitto (reperti che sarebbero poi andati a costituire un’apposita sezione del Museo del Louvre).
Fu quindi naturale che gli allievi e seguaci più fedeli del Canova, offertisi di erigergli un monumento funebre, scegliessero di dare forma di piramide al sepolcro che avrebbe custodito le spoglie dell’amato Maestro, morto improvvisamente mentre era ancora nel pieno della sua attività.
Una morte, quella del grande artista, non solo imprevista, ma anche assurda, come accertò l’autopsia effettuata sul suo corpo; essa, infatti, ne individuò le cause nello sfondamento toracico provocato dall’uso eccessivo e improprio del trapano, costantemente puntato sul petto, fino appunto a sfondarlo, per accrescere la potenza del gesto scultoreo.
E altrettanto assurdo fu che proprio quell’autopsia desse occasione per il parziale smembramento della salma: Possagno, il paese natale del Canova, la contese infatti a Venezia, ottenendola per accoglierlo provvisoriamente nella sagrestia della vecchia Chiesa parrocchiale, in attesa che venisse terminata l’imponente tomba appositamente eretta per lui nel Tempio canoviano. Lì venne poi anche portata, dopo varie vicissitudini, la mano destra dell’artista, simbolo della sua arte e che, racchiusa in un’urna di porfido rosso, era stata collocata per qualche tempo all’ingresso dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. In Santa Maria Gloriosa dei Frari, quindi, nella tomba destinata al grande artista venne deposto unicamente il suo cuore: singolare e imprevista coincidenza con l’Egitto dei faraoni e l’uso di conservare separatamente i visceri dal resto del corpo del defunto.
4. Quando una mummia può diventare “galeotta”
Nella scorsa, torrida estate del 2022, all’Arena di Verona è stata rappresentata una nuova edizione di Aida, l’opera che Verdi, convinto dagli amici ad accettare il munifico invito del chedivè, aveva composto di slancio in soli sei mesi, dalla tarda primavera alla fine del 1870.
Prima di allora, a dire il vero, a Verdi, era già stato chiesto di comporre un inno appositamente dedicato alla inaugurazione del Canale di Suez, ma il Maestro aveva opposto un netto rifiuto. Nonostante tale diniego, tuttavia, il suo incontro con l’Egitto doveva avvenire comunque, coinvolgendolo nelle conseguenze particolarmente significative sviluppatesi da una vicenda surreale di cui, senza averlo premeditato e voluto, si trovò attore.
Nella stagione operistica 1868/69 del Carlo Felice di Genova figuravano in cartellone due ben collaudate opere verdiane, Un ballo in maschera e La forza del destino. Protagonista femminile di entrambe era Teresa Stolz, il soprano boemo riconosciuta ormai come l’interprete verdiana per eccellenza. La Stolz, infatti, possedeva la voce perfetta per i ruoli drammatici, i prediletti da Verdi, nei quali la cantante poteva dare massima prova, oltre che delle proprie virtù canore, anche del temperamento e delle attitudini teatrali necessarie ad impersonare le eroine per cui quella musica era stata scritta.
L’intesa fra autore ed esecutrice era, così, quasi inavvertitamente passata dalla fase puramente artistica a quella di una marcata intesa personale; al punto che la Stolz, allontanatasi repentinamente dal direttore d’orchestra Mariani col quale, fino ad allora si era accompagnata, non faceva più alcun mistero della affettuosa confidenza che la legava a Verdi. Lei, da donna libera e spregiudicata qual era, non si preoccupava affatto dei pettegolezzi che accompagnavano ovunque la coppia. Verdi, invece, più prudente, si sforzava di salvare almeno le apparenze; tant’è vero che, per i comuni impegni professionali genovesi, aveva prenotato all’Hotel de Londres per sé e per il soprano, ben tre camere distinte; loro due consumavano in camera anche i pasti, per non interrompere l’approfondimento della partitura prima della rappresentazione, come da giustificazione ufficiale, o per aver maggior riservatezza per motivo vero.
Un altro motivo, molto diverso, induceva la Stolz, notoriamente interessata alle arti magiche e all’occultismo, a non lasciare le camere per recarsi in teatro, suggestionata da inquietanti dicerie sugli influssi malefici degli spiriti dei frati domenicani che, malamente scacciati dal convento preesistente abbattuto per far posto alla nuova costruzione teatrale, intendevano vendicarsi su quanti la frequentavano. Non bisogna dimenticare che anche le protagoniste dei due melodrammi che la Stolz si accingeva a interpretare avevano qualche implicazione con la magia e il mondo ultraterreno. Pertanto, in via precauzionale, il soprano aveva condizionato la sua prestazione canora alla garanzia che tali influssi negativi venissero neutralizzati da un antidoto efficace contro il malocchio e la iettatura.
Consultato appositamente su come risolvere il problema, il famoso esoterista Fulcanelli, più noto con il nome d’arte di Julien Champagne, consigliò di introdurre nascostamente in teatro una mummia egiziana che, sarebbe sicuramente riuscita nell’ardua impresa, ma solamente se autentica. Evidentemente lo Champagne, confidando nella irrealizzabilità di quanto aveva proposto, era perfettamente convinto di non poter essere smentito.
La Stolz, però, per nulla demotivata dalla oggettiva difficoltà di un simile reperimento, chiamò in suo aiuto il Maestro che, ansioso com’era di darle un segno tangibile della sua illimitata potenza, mise in moto le sue innumerevoli conoscenze perché lo aiutassero a dimostrare di essere davvero Il Mago, come affettuosamente lo chiamava sua moglie Giuseppina. Quest’ultima, però, in quel momento era agitata da ben diversi sentimenti nei suoi confronti e da pensieri così gravi da essere stata indotta a lasciare la villa di Sant’Agata per raggiungere sua sorella a Cremona; da lì scriveva al consorte lettere dolenti, augurandogli il perdono divino per la “ferita mortale” che le aveva inferto. Verdi invece, per nulla interessato a meritarsi quel perdono, ma preoccupato soltanto di ottenere la riconoscenza, e le grazie, di Teresa, era riuscito ad ottenere che alcuni suoi ammiratori inglesi reperissero una vera mummia egiziana e gliela facessero recapitare direttamente a Genova.
Lì la mummia, sottoposta ad un esame approfondito, si era rivelata proprio autentica e appartenente al sacerdote di Iside Pasherienaset. La Stolz, profondamente impressionata dalla dimostrazione della onnipotenza verdiana, fece allora addobbare da tempio egizio un piccolo andito nei sotterranei del teatro e, collocatavi la mummia in gran segreto, organizzò nel suo camerino, in coincidenza con la sera della prima de La forza del destino, una seduta spiritica per tentare di evocare dall’Aldilà lo spirito di Pasherienaset, invitando ad assistervi alcuni amici. Tra lo sconcerto generale, però, invece di quello del sacerdote di Iside sembra si sia manifestato ai presenti lo spirito di una fanciulla sconosciuta, la quale intimò alla cantante di allontanare immediatamente dal teatro quel corpo mummificato surrettiziamente introdottovi, perché particolarmente sgradito agli spiriti dei trapassati, pena il verificarsi di varie disgrazie non solo per gli astanti, ma anche per quanti avevano avuto contatti con la mummia stessa. La Stolz, incredula e impavida, non dandole alcun ascolto volle iniziare comunque la recita, ma svenne in scena e, cadendo malamente, si ruppe una gamba e fu quindi costretta a farsi sostituire.
Per Verdi, a parte le sue peripezie familiari, non risultano contrattempi o incidenti occorsigli, anche se, da allora in poi, La forza del destino fu ovunque accompagnata, com’è noto, dalla fama di opera-menagramo per antonomasia.
La peggior sorte toccò alla mummia, se non altro colpevole di mancata protezione di chi l’aveva voluta a Genova: venne svenduta dal Teatro a un rigattiere e, dopo vari, umilianti passaggi, finì ingloriosamente negli armadi del Museo etnologico di Pegli (dove si trova ancora oggi, orribilmente ma comunemente individuata come “La mummia di Verdi”).
Ecco spiegata, così, la vera ragione del diniego, netto e deciso, accennato più sopra, opposto dal Maestro all’invito del Viceré d’Egitto a comporre un inno encomiastico per la programmata apertura del Canale di Suez; rifiuto giustificato dal Verdi con la scusa che “non era sua abitudine scrivere musica d’occasione”.
Contrariamente a tale decisione, tuttavia, quando lo stesso Isma’il Pascià tornò alla carica, proponendogli di scrivere un’opera egiziana storica che, per un’adeguata ambientazione, prendesse spunto dalle iscrizioni e dai bassorilievi dell’Alto Egitto, il Maestro capitolò.
Forse, spinto anche dal munifico compenso offertogli, nella primavera del 1870 si lasciò, infatti, convincere ad accettare l’incarico grazie ai buoni uffici del caro amico Camille du Locle, Direttore dell’Opéra Comique di Parigi, con cui più volte aveva collaborato. Questi gli aveva sottoposto un soggetto ideato dall’egittologo Auguste Mariette, responsabile di molte campagne di scavi, concernente una drammatica storia d’amore ambientata appunto nell’antico Egitto. Una storia che, riportando evidentemente al Maestro cari ricordi, lo spronò a mettersi immediatamente al lavoro. Venne coinvolto anche Antonio Ghislanzoni, poeta e scrittore vicino ai circoli mazziniani, che si prodigò nella stesura del libretto definitivo, abbastanza diverso da quello originario del Mariette proprio a causa delle modifiche apportatevi dallo stesso Verdi.
Per inciso, si segnala che la situazione familiare della coppia Verdi-Strepponi si era poi rasserenata perché lui, appena rientrato da Genova, era corso a Cremona per riprendersi la moglie, riuscendo, non si sa come, a farla tornare a casa a Sant’Agata.
5. L’Aida di Verdi: una femminista ante litteram?
È innegabile che Verdi fu completamente conquistato dal fascino di Aida, personaggio femminile molto diverso da quelli che, fino ad allora, avevano popolato le sue opere; con la sua musica, pertanto, si apprestò a dar vita alla figura di una donna sensibile e appassionata, determinata e volitiva che, pur avendo conosciuto lo strazio dell’essere strappata dalla propria famiglia e dalla propria terra, dell’esilio e della schiavitù, non si era lasciata annientare da tanto dolore.
Sola, nel paese nemico che ormai dominava la sua Etiopia, aveva saputo reagire mantenendo la fierezza e la dignità della stirpe reale cui apparteneva, riuscendo altresì a guadagnarsi la stima e la fiducia della figlia del faraone e l’ammissione alla di lei corte.
Per Verdi, dunque, è Aida a conquistare l’Egitto, e non viceversa. Anche perché l’Egitto creato dalla immaginazione verdiana è un paese irreale, del tutto avulso da quello storico-archeologico ricostruito dagli studi scientifici e che l’editore Ricordi si era premurato di far recapitare al Maestro, senza però riuscire a suscitare alcun suo interesse o la sua attenzione.
La ricostruzione del vero Egitto e del vero Nilo a Verdi non interessava affatto: per lui Egitto e Nilo dovevano restare avvolti dal mistero, ben lontani dalle immagini del paesaggio attraversato dal fiume che i Romani possono anche oggi ammirare non lontano dalla loro città, a Palestrina, dove quel paesaggio è rappresentato, con molti particolari, dal grande mosaico, riscoperto da Federico Cesi nei primi decenni del 1600, e che originariamente era situato nel Foro civile dell’antica Preneste.
Un mosaico nilotico probabilmente destinato a decorare il pavimento di un vasto ambiente absidale, forse il santuario della Fortuna Primigenia, ma inglobato poi dai Colonna, signori di Palestrina, nel loro splendido palazzo passato successivamente ai Barberini e, più tardi, trasformato nella attuale sede del locale, bellissimo Museo archeologico.
Dopo numerosi restauri, anche molto recenti, il mosaico continua, com’è noto, a suscitare il grande interesse di innumerevoli studiosi e appassionati di archeologia che lo hanno interpretato, ormai senza obiezioni significative, come una celebrazione della conquista dell’Egitto da parte di Ottaviano Augusto.
L’originalità della descrizione elicoidale, ideata per essere percepita guardandola dall’alto, contempla non solo vari villaggi e conglomerati di edificazioni, ma anche soggetti umani, animali e piante di diverse specie, dominati dal corso del fiume che tutto avvolge e feconda con la forza benefica delle sue acque. Il Nilo e la sua terra, avvinti in una unione sacra e indissolubile, così come è narrato da Erodoto nelle sue Storie, direttamente alle quali si ispirerà, innumerevoli secoli dopo, la Serenissima Venezia per celebrare ritualmente e trionfalmente il suo Sposalizio con il Mare.
L’idea del Nilo che Verdi sviluppa nella sua opera è, invece, esclusivamente sua; a lui preme mettere in musica una grande storia d’amore, anche se terribile e crudele; una storia in cui l’amore riesce a vincere la volontà dei potenti e la forza della stessa morte.
Una vicenda tragica che Aida domina interamente, da donna padrona del proprio destino e ben più forte di Radames. Lui è, infatti, un guerriero trionfante sul campo di battaglia ma, nella vita, fragile ostaggio dei propri sentimenti; da questi sarà indotto a tradire la patria, sebbene inconsapevolmente, perdendosi negli astratti vagheggiamenti del trono vicino al Sole su cui far assidere l’amata; un’amata che, nella realtà terrena, ha cura di tenere segreta, tentando di evitare la gelosia e la vendetta di Amneris, innamorata ignara di avere una rivale nella sua schiava etiope.
Passioni umane che si intrecciano e si sovrappongono, travolte dal fiume di note che sgorga direttamente dall’anima del Maestro, confondendosi nelle azzurre onde del Nilo, unico confidente e depositario delle più intime verità messe a nudo sulle sue rive dai diversi personaggi di quella storia.
È proprio il Nilo, infatti, il vero protagonista dell’opera (anche se i registi odierni non se ne accorgono più, negandogli una sia pur minima presenza in scena e ignorando ostinatamente che l’intera partitura mai smette di evocarlo).
Quel Nilo che ha spinto il Maestro a trasporre nella protagonista femminile dell’opera (che da lei prende il nome) il ritratto di una donna che abita nel suo cuore e stranamente somigliante al soprano che presto le darà voce; una donna capace di scegliere da sola se vivere, anche senza amore, oppure condividere la morte con l’uomo amato; una donna davvero libera, conscia della propria autonomia e della propria intelligenza, al punto da aver intuito che chi sta accingendosi ad affrontare la fine dell’esistenza da sepolto vivo ha un disperato bisogno del di lei sostegno e della di lei vicinanza.
Il disperato Radames la scoprirà, così, accanto a lui, nelle tenebre di un sepolcro che una pietra irremovibile sigilla e nel quale lei si è già introdotta nascostamente. E solo in quel momento comprenderà di quale immenso amore lui è stato beneficiato.
L’Aida sarà rappresentata per la prima volta il 24 dicembre del 1871, a Il Cairo, nel nuovo teatro appositamente edificato per celebrare l’apertura del Canale, ma con evidente, grande ritardo sia sull’inaugurazione del taglio del Canale che su quella del teatro stesso; un ritardo dovuto allo scoppio della Guerra franco-prussiana e del conseguente assedio di Parigi che aveva impedito la spedizione in Egitto dei costumi, e delle scene realizzati negli atelier dell’Opéra di Parigi, sotto la supervisione dell’egittologo Mariette.
Protagonisti principali per Aida il soprano Antonietta Pozzoni Anastasi, per Radames il tenore Piero Mongini, entrambi artefici di un grande successo. Ma il vero trionfo della nuova opera verdiana sarà quello del giorno 8 febbraio del 1872 alla Scala di Milano, nell’allestimento curato personalmente, anche nei minimi particolari, dallo stesso Verdi e, ovviamente, con la Stolz come Aida.
6. “Gli eredi, che brutta razza!”(da una lettera di Verdi alla Stolz del 19 novembre 1895).
Chi ha avuto la fortuna di visitare la villa di Sant’Agata quando ancora era aperta al pubblico, molto probabilmente sarà rimasto sorpreso dalla presenza in giardino di una costruzione in pietra, di forma piramidale, lapidariamente indicata dal custode in veste di guida come “la tomba del Radames”. Un significativo frammento di Egitto in provincia di Piacenza.
Per nessun’altra delle sue opere Verdi aveva voluto un ricordo così concreto accanto alla sua casa, quella che lui stesso aveva progettato e che tanto amava; tantomeno aveva desiderato un qualsiasi altro riferimento, così tragicamente esplicito, alla morte, e a una morte atroce, causata dalla mancanza d’aria. Troppo facili, forse, le conclusioni che se ne potrebbero trarre ricordando gli ultimi anni di vita della Strepponi e l’innegabile raffreddamento del suo rapporto con il marito.
Basti pensare che, alla prima esecuzione della Messa da Requiem nella chiesa milanese di San Marco, il vuoto della sedia in prima fila, riservata alla consorte del Maestro, era stato pateticamente compensato solo da uno splendido mazzo di rose.
Probabilmente consapevole di non avere ancora molto tempo da vivere, Giuseppina si era comunque adattata alla costante presenza della Stolz a Villa Sant’Agata, ma non aveva potuto accettare quella dedica al soprano, apposta direttamente dalla mano del marito sulla prima pagina della sua composizione.
Accanto alla piramide funebre ancora superstite nel giardino della villa, può scorgersi una piccola lastra tombale che contrassegna la sepoltura del cagnolino che, per lunghi anni, aveva fatto compagnia al Maestro, amandolo profondamente senza mai chiedergli nulla in cambio.
Come ormai è noto, Villa Sant’Agata, a causa dei dissidi tra i vari discendenti della figlia adottata dalla coppia Verdi-Strepponi, è stata posta in vendita all’asta; se quindi lo Stato non sarà riuscito in qualche modo ad intervenire, diventerà proprietà dell’acquirente privato che saprà aggiudicarsela.
Forse per un suo inspiegabile presentimento, nelle sue disposizioni testamentarie il Maestro aveva scritto di voler essere sepolto a Milano, nella casa di riposo per musicisti da lui fondata; e così è stato, per nostra fortuna.
Lì è quindi sempre possibile portargli un omaggio e un saluto.
Riposa in pace, caro, amatissimo Maestro.
(Immagine di copertina: Mosaico del Nilo, Palestrina Museo archeologico nazionale)