ARTE E PUBBLICITA’: DA TOULOUSE-LAUTREC A PASCALI di Fabrizio Campanella

by Lilibeth

Si racconta che, prossimo alla morte, durante una delle sue ultime uscite in carrozza per le strade di Milano, Giuseppe Verdi sia rimasto particolarmente colpito dai primi lampioni elettrici collocati tra piazza Duomo e il Teatro alla Scala. È singolare che proprio nella città che un decennio più tardi sarebbe stata il proscenio del Futurismo, col suo culto per il dinamismo e l’innovazione tecnologica, l’anziano maestro, gigante dell’Opera dell’Ottocento, si affacciasse con stupore ai tempi moderni che stavano maturando e che nel 1913, con Luigi Russolo, avrebbero addirittura affiancato alle note e ai suoni dell’orchestra, per restare nell’àmbito musicale, i “rumori” della civiltà meccanica, urbana e industrializzata.

Continuando in questa sorta di immagine del “vecchio mondo” che tra il XIX e il XX secolo inizia a convivere con i prodromi di qualcosa che sta nascendo, ma che ancora non si sa esattamente cosa sia, facciamo un piccolo passo indietro e ci spostiamo nella Parigi del Moulin Rouge dove, peraltro, in anticipo sul capoluogo lombardo, l’illuminazione a energia elettrica già s’imponeva con la presenza dei globi di vetro che rischiaravano il locale. Tra quella varia umanità di curiosi aristocratici, gaudenti borghesi, allettanti fioriste, cabarettisti, bohémien e disinibite ballerine che dimenavano le loro gonne come a scrollarsi di dosso la polvere del conformismo e delle convenzioni sociali, si aggirava un distinto signore che non tradiva, all’epoca, i sintomi dell’ubriachezza, sempre a suo agio come si trovasse a casa propria, ma dall’aspetto infelice per via della “picnodisostosi”, una malattia genetica delle ossa simile al nanismo, che lo affliggeva fin dall’adolescenza.

Si chiamava Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec, apparteneva per nascita alla più schietta nobiltà di Francia, e oltre a essere il grande pittore che tutti conosciamo avrebbe contribuito all’invenzione del manifesto pubblicitario artistico. Lo avrebbe fatto tra i tavolini, i sipari e le assi del palcoscenico di un microcosmo nel quale si respirava la spensieratezza, vagamente inquieta, della Belle Époque, ma, insieme, transitavano i fermenti che avrebbero insidiato l’immobilismo di una realtà, chiusa in sé stessa, che rapidamente si apriva al progresso.

Archiviate le astrattezze dell’Idealismo e della Metafisica si avvertiva il bisogno, metaforicamente parlando, di afferrare tra le mani le cose, la vita, la quotidianità, sostituendo al pensiero, alla speculazione filosofica il contatto diretto col circostante. Non siamo più nell’idillio delle gite romantiche e degli ombrellini da sole che pure le signore continuavano a portare passeggiando in riva alla Senna, bensì nel dominio del “vissuto” e del “provato”, e cioè dell’esperienza: siamo, insomma, nel Positivismo.

L’Arte stessa, registrando le istanze di questo cambiamento, non poteva non fare la sua parte, per così dire, intingendo il pennello nelle tinte vivaci e saettanti di una cronaca del presente, in graduale migrazione verso il suo futuro, che se ancora non era “futurismo” gli apriva tuttavia la strada nella rottura dei dogmi accademici e nella vibrazione del “segno” che solcava con immediatezza la superficie della tela.

A cavallo tra quel presente, e quel futuro, si collocava appunto Toulouse-Lautrec, che similmente agli Impressionisti coglieva i suoi soggetti con la prontezza dell’occhio di un acuto osservatore, ma anticipando l’Espressionismo rivelava, al di là della pura percezione, una componente emotiva di caratterizzazione dei personaggi che li rendeva più affini alle “maschere” di Ensor che alle danzatrici di Degas. Questa spiccata inclinazione del suo estro si rivelerà preziosa per caratterizzare il “tratto”, inconfondibile, della sua abilità di illustratore.

L’occasione, del tutto fortuita, non sarebbe tardata. Perfettamente inserito, come si accennava, in quell’ambiente fin de siècle popolato dai frequentatori della notte, clienti assidui o di passaggio che fossero, vi si era integrato a tal punto che notandone gli schizzi, e apprezzandone il talento, la direzione del Moulin, nel 1891,gli commissionò la sua prima locandina. Fu uno straordinario successo e cominciò così, per il Nostro, un’inattesa carriera di afficheur che si sarebbe protratta, congiuntamente all’attività litografica, incrementandone il catalogo dell’opera cui si aggiungeranno, attraverso ardite soluzioni inventive, ulteriori spunti che ne attestano la sorprendente attualità.

Tra le molte prove che lo confermano, e che si potrebbero citare, si sceglierà il manifesto del 1892 dedicato ad Aristide Bruant, stravagante figura di cantante anarchico che si esibiva all’Ambassadeur, la cui popolarità, e il cui consenso, poggiavano paradossalmente sul fatto che, data la sua peculiare vocazione satirica, apostrofasse il pubblico mettendo alla berlina la buona società dei notabili. La fisionomia si prestava: massiccio, corpulento, dallo sguardo accigliato e dalla mascella volitiva, fu effigiato dal suo amico Henri con la sintesi di uno stile altrettanto graffiante quanto la sua indole accentratrice e ribelle. Il viso è più particolareggiato del corpo, chiaroscuri e profondità di campo sono sostituiti dall’uso “piatto” e senza sfumature del rosso e del blu; gli “accessori” della grande sciarpa, e del bastone nodoso che lo chansonnier impugna, si stagliano, in piena evidenza, nel perimetro dell’asimmetrica composizione. «Nella pubblicità – scrive Giulio Carlo Argan – il comunicare per sollecitare è più importante che il rappresentare. Se la rappresentazione è qualcosa che si fissa e si prospetta, la comunicazione insinua e colpisce». Sono parole che si sposano perfettamente con gli intenti di Lautrec e col suo precorrere le strategie della grafica contemporanea.

Smarcandosi dal condizionamento naturalistico, il maestro di Albi adotta ampie cromie – intense, brillanti, distese omogeneamente –, che fanno presa sullo spettatore anche da lontano, calamitandone l’attenzione, ed evitando di diluirsi in inutili dettagli. È una sorta di subliminale sollecitazione psichica, la quale, indirizzata al “consumatore finale”, s’identifica a sua volta in un messaggio, qualunque esso sia, che deve essere essenziale ed attraente.

In riferimento alla tecnica adottata, la litografia a colori, vale la pena, per inciso, di rimarcare, quale valore aggiunto ma non trascurabile, che meno colori, appunto, comportava per i finanziatori minori spese di stampa, e anche questo, riflettendoci, può essere considerato un indizio di modernità nella misura in cui andasse incontro, ieri come oggi, al pragmatismo di bilancio che orienta ogni iniziativa economica, e persino culturale.

La suggestione di un’Estetica che si emendasse dal proprio solipsismo, e fosse accostata alla decorazione, all’arredamento e al design, avrebbe presto goduto di larga fortuna, dall’Art Nouveau, conosciuta in Italia come stile Liberty e celebrata nell’Esposizione Universale di Parigi del 1900, fino alla scuola della Bauhaus, che fu attiva in Germania tra il 1919 e il 1933, nel fecondo clima della Repubblica di Weimar.

Per venire all’Italia, e al tema che stiamo per approfondire, la sfida di un’Arte “globale”, che uscisse dalle pinacoteche e si proiettasse verso la collettività, fu raccolta in primis da quel Futurismo che abbiamo introdotto, non a caso, in vari momenti del nostro discorso, e per il quale – coerentemente con il proposito di “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie” – il linguaggio dell’avanguardia doveva invadere anche i settori che per elezione erano ad esso estranei.

Se fin dalla Ricostruzione Futurista dell’Universo, redatta nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero, tale istanza si concretizzava nella progettazione di veri e propri oggetti d’uso, costruiti con metalli, tessuti, vetri ed altri materiali inediti, il passaggio dalla logica artigianale del pezzo unico, a quella seriale del bene di consumo, si sarebbe affacciata rapidamente con lo sviluppo dell’industria e della commercializzazione su ampia scala.

All’elaborazione di un “prodotto”, e alla sua eventuale allocazione sul mercato, era implicita, chiaramente, la “promozione” del prodotto stesso e quindi lo studio delle soluzioni più adeguate allo scopo.

In tal senso, gli espedienti che l’arte avrebbe potuto mettere in campo, con la loro efficacia persuasiva e propagandistica, costituivano un’opportunità che Depero in particolare, tra i suoi “colleghi”, avrebbe saputo cogliere, teorizzandola nel 1931 col Manifesto dell’arte futurista della pubblicità, e mettendola a frutto mediante la collaborazione con vari “marchi”, dalla Magnesia all’Acqua San Pellegrino, dal liquore Strega all’aperitivo Campari. Di quest’ultimo disegnò la nota bottiglietta a calice rovesciato, senza etichetta adesiva, ma col marchio stampigliato in rilievo. «Esaltando con il genio i nostri prodotti, le nostre imprese, cioè i fattori primi della nostra vita, non facciamo che dell’arte purissima e verissima», dichiarerà, profetizzando inoltre che «l’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria». C’è l’imbarazzo della scelta, tra le molte, perentorie asserzioni di un programma che, nei suoi esiti, ci ha lasciato l’insegnamento della distinzione tra lo “stile”, che riflette il gusto di una data epoca, e il design, che la trascende completamente nell’identità, e nel sogno, di un “modello” che non passa mai di moda, come la scrivania di Breuer, la Poltrona Frau o la lampada di Flos.

Congeniali alla comunicazione di massa, e a un’interlocuzione con la ditta, o la fabbrica, nel superamento dell’antica sudditanza al mecenatismo, si spalancarono dunque, a latere del quadro e della scultura, orizzonti di sperimentazione rispetto ai quali il termine “arte applicata”, oltre che riduttivo, non interpretava né interpreta correttamente la svolta che questo autonomo procedimento di espressione, nella sua specificità, seppe imprimere alla funzione medesima che il vecchio concetto di opera possedeva: non “dare forma” a un monotipo confinato nel perimetro di una cornice, bensì “informare”, nella maniera più essenziale e incisiva possibile, per il tramite di un archetipo riproducibile all’infinito. Nulla perde, l’archetipo, delle ascendenze che lo raccordano alla cifra di una qualità estetica. Semplicemente se ne serve per polarizzare un interesse, spesso distratto da mille stimoli, e per integrare a sé un quid novi che ne distingua e ne enfatizzi il contenuto da divulgare.

La pubblicità come “arte nuova del mondo moderno”, secondo l’entusiastica definizione di Marinetti e dei suoi amici, trarrà pertanto a suo motto e divisa, d’ora in poi, il seducente equivoco per il quale la virtù dell’articolo reclamizzato poggia sulla vis allettante della confezione.

Cronologicamente più vicino a noi, e in piena era televisiva, non si può non accennare, per completezza, al ruolo svolto dallo scultore, scenografo e performer Pino Pascali, barese di nascita ma romano d’adozione, che tra il 1957 e il 1968, assoldato dal produttore Sandro Lodolo, firmerà gran parte degli spot del Carosello Rai.

Le sue sono piccole sceneggiature che al sonoro del video associano il fumetto, di cui lui intuisce la versatilità e la facile comprensione anche da parte degli spettatori meno acculturati, improntandone la trama, che non disdegna gli esclamativi e le interiezioni onomatopeiche, alla misura intenzionalmente ingenua e infantile del gioco e dell’avventura.

Sempre come pubblicitario, e sulla scia dell’antesignano Depero, Pascali, presterà inoltre il suo acume creativo ad aziende del livello di Agip, Àlgida, Caffè Mauro, Cirio e addirittura Ferrovie dello Stato.

Anche questa sarà l’avventura dell’Italia del boom economico.

Ma al di là degli emblemi di un ottimismo che non ha esaudito, purtroppo, tutte le sue promesse, resta la lezione di un’attitudine dell’arte a rigenerarsi che non ha esaurito, ancora, tutte le sue risorse.

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