UN ESEMPIO DI BAROCCO ROMANO A VENEZIA: LA CHIESA DEI GESUITI di Pierluigi Cipolla

by Lilibeth

Venezia nel Seicento è come una donna di prorompente bellezza che riesce ad occultare al meglio il declino, già in stato avanzato. Il Seicento della Serenissima è un secolo di magnifica decadenza.

A causa delle rovinose ondate epidemiche di peste, delle ripetute guerre per terra e per mare contro il nemico mortale ottomano, e soprattutto della perdita di centralità del Mediterraneo nello scacchiere internazionale, la popolazione è in calo, la ricchezza accumulata in secoli di traffici e rapine si riduce, il peso geopolitico è quasi nullo, mentre i nuovi ed aggressivi Stati nazionali estendono in tutto il Globo terracqueo quella politica imperiale che proprio la Serenissima aveva “inventato” e praticato nel Mediterraneo orientale durante l’età dello splendore. Ma, nonostante tutto, la facciata resta sfarzosa; i visitatori stranieri, anche i più avveduti, continuano a manifestare stupore. La Venezia del Seicento sembra lo specchio dell’Italia del XXI secolo.

Lo stato delle arti conferma la diagnosi. La pittura veneta, che nel ‘500 aveva dettato legge in tutto l’Occidente, e che al volgere del secolo ancora entusiasma i Carracci e i seguaci emiliani, in patria improvvisamente sfiorisce, si atrofizza, perde luce e colore. Le opere di Jacopo Palma il Giovane, presenti in quasi tutte le più importanti chiese veneziane e i quadri dei tenebrosi (Zanchi, Negri, Loth) invadono la città con i loro lugubri effetti. Soltanto nella seconda metà secolo si assiste a una ripresa classicista in chiave neorinascimentale (Bellucci, Celesti, Lazzarini), oppure si recepiscono i disinvolti virtuosismi rubensiani e cortoneschi (si allude a Piero Liberi, Nicolò Bambini, Giovanni Antonio Fumiani[1]), ma, appunto, si tratta di repliche. Occorrerà attendere Sebastiano Ricci per ritrovare un maestro veneto in grado di aprire nuove strade (e infatti a lui si ispireranno gli artefici dell’ultima mirabolante stagione della pittura veneziana[2]).

Quanto all’architettura, soltanto Baldassarre Longhena sfolgora come astro nel panorama artistico mondiale, in grado di rinnovare la città, ancora dominata dagli influssi palladiani. La chiesa di S. Maria della Salute, sintesi di simbolismo ed effetti scenografici, dal 1630 contrassegna in modo indelebile l’accesso dal mare; le Procuratie nuove, completate nel 1640, costituiscono un mélange di rigore palladiano e innovazione; Ca’ Pesaro e Ca’ Rezzonico, per l’intenso gusto scenografico, costituiranno il modello per molti palazzi nobiliari sul Canal Grande e altrove. Si tratta di scenografie integrate nel tessuto bizantino, medievale, rinascimentale della Serenissima, eppure così eclatanti da contrassegnare nei secoli a venire la città lagunare. Prima dei Tiepolo, si tratta dell’ultimo intenso bagliore in un lungo crepuscolo, in attesa dell’apocalisse napoleonica.

Ma qui si vuole incentrare l’attenzione su uno straordinario edificio veneziano della tarda età barocca, per lo più ignorato dall’aggressione turistica planetaria, ubicato in un settore della città ancora, in parte, in possesso dei residenti. Nel sestiere di Cannaregio, a pochi metri dalle fondamenta Nove, in quella zona della laguna che il tramonto infuoca nelle giornate assolate d’estate e d’inverno, davanti a un campo dove – se si è fortunati – ancora si può godere del chiasso di bambini e ragazzi impegnati fino allo spasimo in sgangherate gare di pallone “da strada”, si erge la imponente e bianca facciata della Chiesa di S. Maria Assunta, o dei Gesuiti, del 1715, il cui interno sembra un gioiello della Roma barocca traslato nel fragile corpo della città nata dalle acque. E pensare che cent’anni prima Venezia era giunta ad un passo dallo scisma con la Chiesa cattolica, a causa della questione della nomina dei vescovi!

Orbene, nell’interno tipico delle chiese gesuitiche, con una navata arricchita da cappelle laterali, ciò che colpisce è la decorazione, in cui manca lo sfarzo dorato dei prototipi romani e tuttavia è presente un effetto illusionistico che supera – se ciò è possibile – Sant’Ignazio, il Gesù, etc.: la parete è interamente rivestita da una decorazione ad intarsi di marmo bianco e verde e stucchi bianchi e oro. E quando si dice “interamente rivestita” non si esagera: le pareti – fino a una certa altezza – sono proprio di marmo bianco e verde, con un motivo che ricorda le tappezzerie damascate. La medesima illusione continua nel pulpito, coperto come da un drappo (ma si tratta pur sempre di marmo) e nei gradini del presbiterio, che sono congegnati come un finto tappeto. Nessuna parola può descrivere compiutamente l’effetto: occorre affinare la vista (e molto) per accorgersi che il tessuto è tutto marmo a intarsi.

Questo tardo esempio di barocco romano trapiantato a Venezia, senza le estreme esagerazioni del Bernini, di Pietro da Cortona e di padre Pozzo, meglio che altrove spiega il significato profondo di quello stile e dello spirito che lo generò.

Ricordando i versi del Marino, “è del poeta il fin la meraviglia”[3], l’uomo di media cultura associa comunemente il barocco alla meraviglia, ma pochi ne conoscono la vera ragione. Occorre partire dal dualismo, che costituisce l’intima essenza del barocco. A questo proposito scrive Panofsky che “l’atteggiamento del barocco può dirsi fondato su un conflitto oggettivo tra forze antagoniste che tuttavia si fondono in un atteggiamento soggettivo di libertà e anche di piacere: è il paradiso del pieno Rinascimento riconquistato dopo le lotte e le tensioni del manierismo, anche se ancora tormentato e animato dall’acuta consapevolezza di un dualismo di fondo”[4]. Qui, più semplicemente, si aggiunge che dopo le epoche dell’inganno neopagano e della tragedia scatenata dalla reazione protestante, agli albori della rivoluzione scientifica l’uomo occidentale è divenuto pienamente conscio della sua caducità, ma ha acquistato (o riacquistato) anche la cognizione della persistenza in sé stesso di una scintilla divina. Questo è il vero, profondo dualismo a cui alludeva Panofksy.

Orbene il “piacevole”, “curioso” sentimento della Meraviglia consiste nello strumento offerto dalla Provvidenza (o dalla Natura, se si preferisce) per avviare quel circuito virtuoso che allontanerà i figli di Adamo dalla (consapevolezza della) loro pochezza materiale, per riattivare la vocazione naturale verso Qualcosa di alto, in direzione di nuove e più elevate mete, e così ricomporre in sintesi il dualismo esistenziale. In questo contesto, l’illusionismo artistico tanto caro all’estetica barocca, lo strumento principe per ispirare lo stupore, rientra in una più ampia pedagogia religiosa di stampo gesuitico: ha lo scopo di mostrare che le cose non sono quello che sembrano, che oltre l’apparenza c’è di più. Soltanto per i giansenisti l’uomo, il mondo, la vita sono un aut aut senza uscita: o Dio o nulla; o l’ordine o il caos; o l’amore per verità e giustizia o errore, inganno. Al contrario, secondo l’ortodossia gesuitica l’uomo, il mondo, la vita sono un et et, l’apparenza del transeunte non è tutto. Appunto, nella chiesa dell’Assunta, il virtuosismo architettonico intende dimostrare che ciò che “sembra” tessuto, fatto di materia vegetale o animale, invece “è” marmo intarsiato, consta di materia preziosa e durevole. Di qui, se possibile, l’innesco delle domande su ciò che c’è, ma non si vede…

È curioso come questa Chiesa veneziana poco conosciuta, ancora oggi, nell’epoca dell’Io-Dio, ci ponga una sfida, che peraltro riguarda il nostro destino: siamo diventati sassi oppure abbiamo ancora occhi e mente per coltivare lo stupore, la sorpresa, la Meraviglia?


[1] L. Finocchi Ghersi, I quattro secoli della pittura veneziana, Marsilio, Venezia 2003, p. 103 ss.

[2] Sul punto, L. Finocchi Ghersi, I quattro secoli, cit., p. 114 ss.; F. Galluzzi, Il barocco, Newton & Compton, Roma 2005, p. 185.

[3] G. B. Marino, Il poeta e la meraviglia, in Poesie varie, Laterza, Bari ed. 1913, p. 395.

[4] E. Panofsky, Tre saggi sullo stile. Il barocco, il cinema e la Rolls-Royce, Abscondita, Milano 2011- 2015, p. 31.

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