Ricordo che, nel 1995, con gioia fanciullesca raccolsi, a mano a mano che apparivano in libreria, i cinque volumetti di un’opera che, una volta giunta a compimento, si guadagnò un posto d’onore nella mia libreria, tanto era stato il piacere col quale l’avevo letta, da cima a fondo.
Era La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio, pubblicata in quell’anno da Arnoldo Mondadori, negli Oscar – Piccoli saggi –: un vero gioiello!
Ebbene, qualche giorno fa avevo tra le mani il terzo volumetto – La civiltà dell’assolutismo e della Controriforma – di questo pregevole lavoro e, a pagina 113, leggevo che «nelle arti figurative e nella letteratura non dominò, nell’età del Barocco, un gusto solo. Volendo semplificare possiamo dire che gli artisti dell’età o civiltà del Barocco furono concordi solo nel non condividere più la sensibilità e il gusto propri del Rinascimento, ma già nella seconda metà del secolo il distacco dalla mentalità e dal gusto del primo Cinquecento si era rivolto in almeno due direzioni: alla ricerca di un regolismo grave e severo e all’affermazione di un’arte libera da vincoli, gioco estroso della fantasia, musicale estenuato patetismo.
«Nel Seicento tutte e due queste tendenze vennero a maturazione, e il Barocco si espresse in diversi modi: innanzitutto tradusse in arte e in pensiero lo spirito di una Chiesa cattolica non più alla difesa della sua identità ma cosciente della sua forza e tripudiante del suo trionfo. Forse, l’espressione plastica più evidente di questo stato d’animo, la sua traduzione in pietra e spazio, è il colonnato del Bernini in piazza San Pietro, a Roma: partendo dalla basilica pare spalancare le braccia per accogliere il mondo intero. È il frutto del Concilio di Trento, che aveva riaffermato la superiorità del Papato romano, del contenimento dell’eretica pravità, dello spirito missionario che aveva ricristianizzato il clero e le campagne ed evangelizzato, sia pure con crudele violenza, le Americhe, e con i gesuiti avanzava in Cina, in Giappone, nelle Indie, e che con gli stessi gesuiti aveva conquistato il dominio e l’egemonia della scuola. Il documento letterario che genera questo diffondersi planetario della parola di Cristo è, forse, l’ampia Istoria della Compagnia di Gesù del gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), un poligrafo operosissimo.».
Ripensavo a queste parole del Petronio quando, oggi, 29 giugno 2021, verso le 10,30, entravo nella Chiesa di Sant’Ignazio, nell’omonima Piazza di Roma.
Appena gli occhi s’erano abituati alla luce dell’interno, colpivano il mio sguardo sia il giallo dell’oro che decorava colonne, cornici, stucchi, teche di reliquie, candelieri, trombe di angeli, sia il nero, il rosso, il verde dei marmi delle colonne vere, il blu del lapislazzuli usato ancora in pietra o come colore nei dipinti, sia i mille e mille particolari dei tesori della chiesa. Non sapevo su cosa fermare la mia attenzione, veramente rapito, ancora una volta trasportato indietro nel tempo dalla quantità travolgente dei messaggi che quei tesori lanciavano agli occhi ed all’anima.
Ma catturava la mia attenzione l’affresco della volta della chiesa, nella navata centrale.

Che stupefacente meraviglia!
Un tempio dipinto a tre dimensioni – un’altra chiesa, quella rappresentata da Andrea Pozzo, gesuita –, all’interno di un tempio vero qual era la chiesa nella quale mi trovavo!
E, più sopra, un cielo infinito e luminoso che – in un vortice verso l’alto al cui culmine era Cristo – risucchiava Sant’Ignazio e, assieme a lui, un cumulo di nuvole, una miriade di personaggi… ed il mio sguardo!

Alla base delle colonne che reggevano la seconda chiesa – che, nella fantasia dell’artista, era, in verità, la Chiesa cattolica-istituzione della prima metà del ’600, secondo quanto io venivo realizzando a mano a mano – erano rappresentati i quattro Continenti allora conosciuti (Europa, Africa, Asia ed America), in forma di splendide matrone assise in trono.
Tra Cielo e Terra, sospinto da nuvole avvinte anch’esse nel vortice facente capo a Gesù, notavo – nell’abito nero della Compagnia di Gesù – San Francesco Saverio, alla guida verso il Cielo delle anime convertite in Asia.
E finalmente comprendevo che, in effetti, quell’affresco mirabile era il Trionfo della Chiesa cattolica romana, ormai divenuta, al tempo in cui la mirabile opera pittorica era stata realizzata, religione e istituzione spirituale dominante sull’intero Globo terraqueo, guidata verso il Cielo dai Missionari della Compagnia di Gesù e, in primis, dal fondatore di questa, Sant’Ignazio di Loyola.
Procedendo oltre all’interno della chiesa, all’altezza del transetto notavo anche la stupefacente finta cupola dipinta anch’essa dal Pozzo, la quale occhieggiava verso l’alto, fingendo che lì, dove nessuna cupola c’era, ci fosse la cupola della seconda chiesa, sulla chiesa all’interno della quale mi trovavo!

Giungevo quindi al presbiterio della chiesa e guardavo l’abside, che mi appariva poligonale ma che in realtà era concavo, e solo apparentemente era stato diviso – con stupefacente effetto – da finte colonne a sezione quadrata-tonda-quadrata-tonda.

Continuavo a visitare la chiesa e stupivo ancora nel guardarne gli altri splendidi elementi, che qui non posso, per mancanza di spazio, con rammarico descrivere.
Stasera, seduto alla mia scrivania – mentre, assieme a chi legge queste mie righe e ne guarda le fotografie a corredo, sto a rivivere le sensazioni che ho provato stamattina – non riesco a non pensare a quel che Giuseppe Petronio, nell’aureo volumetto all’inizio citato, affermava. Non riesco a non pensare a quanto magnificamente gli uomini e gli artisti dell’età barocca, per un’epoca non breve pur se talvolta con cadute di gusto e non sempre con vera commozione, seppero celebrare il trionfo della Chiesa cattolica.
E mi ritorna davanti agli occhi lo stupefacente affresco della volta della Chiesa di Sant’Ignazio…

…, mentre rileggo quanto Mario Sansone, nella sua Storia della letteratura italiana3, Principato, Milano 1973, ad illustrazione proprio del dipinto in parola (in Espressioni figurative del ’600 e del ’700, tavola III), scriveva: «Nella volta della Chiesa di Sant’Ignazio, a Roma, costruita fra il 1626 e il 1685, il padre Andrea Pozzo opera la congiunzione e quasi il trapasso dalla pittura in architettura, come il Bernini aveva sviluppato verso forme pittoriche la sua scultura. Il grandioso dipinto rappresenta la gloria del Santo e la sua entrata in Paradiso.
«Forse nessuna opera pittorica può, come questa, dare l’idea dell’arte come meraviglia, nel senso più proprio che l’attenzione dell’artista è volta, al di là dei valori del contenuto, a istituire rapporti di una teatralità che colpisce per sé stessa: è l’immaginazione che si esalta sino a consumarsi in esuberanza sconcertante. L’immenso affresco ha importanza, oltre che per la realizzata unità di pittura ed architettura, oltre che per il fastigio abbagliante dell’immaginazione, per il rapporto che realizza con il pubblico: è il trionfo di Sant’Ignazio e quello insieme della Compagnia di Gesù, che dirige tutto l’indirizzo della nuova vita ecclesiastica, vòlta a conquistare le masse e rattenerle nell’ortodossia, anche e prevalentemente attraverso i mezzi della potenza e della penetrazione mondana, tra i quali essa annovera l’arte, che perciò trascende sé stessa, come teatralità dell’immaginazione, così nella forte tensione proselitica. Sono le prime forme, legate tuttavia a una grandissima tradizione, dell’arte-propaganda.».
… E torno ancora una volta a stupire, di fronte alla bellezza, fors’anche discutibile, ma certamente notevole e coinvolgente, di un’opera come quell’enorme affresco.