Io ti vengo alla libera e sincero
poi che fosti mio concittadino,
Dante Alaghieri di Porta a san Piero,
e l’aspro volgar nostro fiorentino,
che rifondesti ai fuochi dell’inferno
perchè sonasse in cielo più divino,
io prima l’ebbi dal labbro materno
che non l’incorporassi più possente dall’alta poesia del tuo quaderno.
Ed io nacqui non lungi alla tua gente
e fui sul fonte del bel San Giovanni
di Cristo, al pari di te, fatto parente.
Or che moriron giusti secent’anni
dal giorno che la febbre ti condusse
in altra terra a vestir meglio panni
il verminaio che il tuo corpo strusse fuggito dal sepolcro attorno v’alia,
ed altre bestie simili v’addusse
dall’infime lacune dell’Italia.
E del volume tuo fanno pastura
nuova, gridando: “E’ ci ha tenuto a balia
e rivelata ogni sigillatura del suo velame; omai ciascuno s’empia
delle midolla della sua fattura”.
Né passa giorno che una mosca scempia,
poi ch’è impinguata d’erudito sterco,
non venga a nettar l’ali alla tua tempia,
e dopo che ogni pelo t’ha ricerco
colla tromba merdosa e il ventre molle,
con ronzoni e con bruche move alterco.
E tal che nacque a nutricar cipolle
annusa e fruga nella tua Commedia
per raccattare i fruscoli e le brolle.
Altri, col deretano in sua sedia
là dove ogni grand’opera è disfatta,
colle gengive i duri enimmi assedia.
Ogni accademia mandò sua ciabatta
ogni arcadia spedì suo pastorello
a frottolar sul “genio della schiatta”.
Giù dal Parnaso qualche novo uccello
briaco di cervegia e vin di Puglia
scende a far colle muse suo bordello
e colla bocca che taglia oppur muglia
i fiori dello stil parabolano
sopra la tomba tua rece e barbuglia.
(scritta in occasione del sesto centenario dalla morte di Dante e pubblicata da Pane e Vino, Vallecchi, 1926 )