Uno dei punti di approdo più strategici al vertice della parabola storica di Napoleone Bonaparte è da situarsi in quel famoso 18 brumaio (9 novembre) del 1799, anno VIII della Rivoluzione francese, che segnò al fine del Direttorio e della stessa Rivoluzione, dando inizio alla vicenda del Consolato, prodromico dell’Impero.
Karl Marx pubblicherà nel 1852 un breve ma intenso scritto intitolato Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte per analizzare i passaggi della Rivoluzione francese del 1848 dalla caduta di Luigi Filippo fino al colpo di stato del 1851 (una sorta di novello 18 brumaio) di Luigi Bonaparte, il nipote di Napoleone, futuro imperatore Napoleone III, che pone così fine a un altro tempo della Repubblica. E ricorda all’inizio come Hegel, in un passo della Sua Fenomenologia dello spirito, abbia detto che i grandi avvenimenti si presentano nella storia in genere due volte; Marx aggiunge che Hegel dimentica di dire che questi avvenimenti però appaiono sempre in genere la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda sotto forma di farsa. E qui voleva introdurre come, avendo trovato la Francia del 1851 non il suo figlio come leader ma “il nipote di suo zio”, la forza del secondo tempo e del Secondo Impero tendesse a obnubilare il grande dramma “borghese”, e si vedrà anche il perché, del 18 brumaio del primo Napoleone.
In effetti, nel 1799, a sette anni dal 1792 e dopo il primo periodo delle Costituzioni illuministiche giacobine della Rivoluzione (a volte influenzate dal pensiero “progressivo” di Rousseau, connotato da partecipazione e forme di democrazia diretta), la nuova classe sociale ha necessità di far valere i propri interessi e il proprio ruolo produttivo, non bastando più ad essa vivere la stagione del semplice citoyen formale. Essa pretende ora che i diritti naturali, ipostatizzati nelle concezioni filosofiche della modernità inglese (Hobbes, Locke) e francese (Illuminismo), vale a dire vita, libertà e proprietà privata, pàssino da semplici elementi ideali e politici al riconoscimento effettivo e reale attraverso non solo il passaggio già avvenuto dal bourgeois al citoyen, ma anche, viceversa, con un ritorno dal citoyen al bourgeois. Per cui si esige l’avallo legittimo alla possibilità di passare dai soli diritti politici a quelli relativi al diritto privato (in primis: libertà di commercio, libera iniziativa e proprietà privata).
Ed è il 18 brumaio 1799 che di fatto dà la stura al processo: come nota Antonio Labriola nelle sue lezioni di Filosofia della Storia, tenute all’università di Roma negli anni ’90 del XIX secolo, la libertà del commercio esigeva che ogni prodotto diventasse liberamente commerciabile, e superava perciò l’ultimo ostacolo ottenendo che il lavoro divenisse anch’esso libera merce di scambio. Così tutto si sconvolse in quel momento, e lo Stato, che era parso per secoli una sacra istituzione, ovvero un mandato divino, lasciando il capo del suo sovrano sotto l’algida azione di uno strumento tecnico, ne uscì fuori sconsacrato e reso profano. Insomma, diventava esso stesso un apparato tecnico che alla gerarchia andava sostituendo la burocrazia.
Il nuovo Stato ebbe bisogno del 18 brumaio proprio per diventare una ordinata burocrazia che si basasse sul militarismo vittorioso. E in tal modo si pose come coronamento della Rivoluzione nel momento stesso in cui la negava. Ancora: questo Stato non poteva fare a meno del suo testo; e lo ebbe nel Codice civile, che è il libro d’oro della società che produce e vende merci.
In effetti il codice napoleonico è il Codice civile attualmente in vigore in Francia e, com’è noto, è uno dei più celebri del mondo. Non è un caso che abbia funzionato da modello per tutti i codici successivi e abbia avuto forte influenza su altre importanti legislazioni. Esso confermava le maggiori conquiste della Rivoluzione, come l’uguaglianza formale di fronte alla legge e l’abolizione del feudalismo, ma anzitutto tutelava il diritto di proprietà privata, diventando così uno strumento fondamentale per la nuova borghesia rampante. Fu redatto da una Commissione che aveva avuto l’incarico di raccogliere in un unico corpus giuridico la tradizione giuridica francese. E l’importante lavoro sarebbe stato consacrato il 21 marzo 1804, con la promulgazione da parte dello stesso Napoleone del Code civil dei Francesi.
Lo scopo era stato quello di avere un testo che ponesse fine in maniera drastica alla tradizione giuridica dell’Antico Regime, la quale era soggetta a un particolarismo giuridico molto frantumato, che affondava le proprie radici nel vieto, farraginoso e ormai superato diritto comune. I Compilatori partirono quindi dal diritto consuetudinario franco-germanico, ma presero come modello di riferimento il Diritto romano (Corpus iuris civilis), così come interpretato dai giuristi medievali (i Glossatori). L’intento che permeò di sé l’imponente opera fu di trasporre i princìpi giusnaturalistici nel diritto positivo. E nei nuovi testi furono trasfusi chiarezza e semplicità (e quindi, per quanto possibile, certezza); molti istituti giuridici frammentati furono ridotti ad unità.
Non è un caso che l’opera fu molto apprezzata da grandi romanzieri e poeti, da Stendhal, che ne parlò in una lettera a Balzac, a Paul Valery e Jules Romains. Il Codice ha avuto il merito quindi di laicizzare nel privato molti istituti ancora soggetti al diritto comune e ancora intrisi di un’innervatura di tipo mistico-religioso nella vecchia intelaiatura romanistica.
Il lavoro dei Glossatori italiani e della Scuola bolognese (per tutti, di Bartolo da Sassoferrato) aveva iniziato a dissodare il terreno. Ma la semantica chiara e universale della grammatica giuridica civilistica si ha solo con il codice napoleonico, che ha avuto – si è visto – lo scopo progressivo di trascendere i limiti del diritto consuetudinario e di sancire la legittimità della libera iniziativa e del privato in una sorta di vero e proprio processo di feticismo del concetto di proprietà privata già presente in nuce nell’ontologizzazione giusnaturalistica più accreditata. Basti pensare all’istituto della famiglia, così concepito a livello di unità produttiva, e a quanto tale istituto sia in tal configurazione distante dalla concezione hegeliana emergente dai Lineamenti di filosofia del diritto del 1822, ancora evidentemente tributari della tradizione consuetudinaria germanica, proiettata nel sia pure prezioso poema del viaggio dello Spirito attraverso le triadi dialettiche che percorrono la totalità dell’universo. Insomma, una rivoluzione giuridica molto più diretta: in Hegel bisogna “grattare il popolo” per arrivare a scorgere e a trovare il “tedesco”, o meglio il borghese tedesco; nel codice napoleonico, invece, il concetto sociologico del “borghese” è immediatamente ed esplicitamente fotografato in maniera oggettiva, viva e vitale, in una positività che riposa su sé stessa senza la necessità del movimento dialettico e facendo a meno della vestizione velata del misticismo idealistico.
Ciò premesso, questo può essere un modo di ripensare, evitando la retorica, ad una parte dell’eredità napoleonica che ha potuto operare in prospettiva cesaristica per la modernizzazione delle istituzioni, ma a caro prezzo rispetto alla brillantezza dello slancio rivoluzionario iniziale e con il sacrificio di quell’allargamento della democrazia che il torrente di fuoco del 1792 aveva pur sempre prospettato. Quella stessa laicità che, diciamocelo pure, è in realtà molto distante dalla retorica dei versi manzoniani del 5 maggio di scolastica memoria. Versi che – stando a quanto si narra – furono scritti di getto in tre giorni dopo la notizia apparsa sulla Gazzetta di Milano del 16 luglio 1821 della morte di Napoleone e che si condensano nel ricordo vivido delle imprese e del titanismo delle battaglie dell’ex Imperatore per giungere alla teleologica riflessione sulla fragilità umana e sulla misericordia divina.
Ma se nel codice napoleonico si rinviene l’universalismo illuministico anche in chiave di un’ipostasi del feticismo giusnaturalistico (si pensi a Thomas Hobbes e alla proprietà privata come fondamentale diritto di natura, quasi un’intuizione precoce di una sorta di “feticismo della merce”), nonché il rapporto proprietà-potere sotto l’egida del cesarismo e del potere autoritativo, il tutto può essere meglio inquadrato, alla fine, nell’ottica del citoyen che reclama il proprio diritto a essere considerato in realtà bourgeois. Ovviamente, si decreta in questo modo la morte di J.J. Rousseau per impossibilità di partecipazione diretta del popolo, ed emerge invece la personalità carismatica di un demiurgo, vale a dire dello stesso Napoleone. Tale processo di laicizzazione del diritto comune, al di là del lirismo del 5 maggio, induce a rilevare una sorta di negligenza analitica di Manzoni nei versi della sua celebre ode, ideologicamente troppo preoccupati – appare evidente – di rintracciare e invocare comunque i segni dell’intervento della Provvidenza nella Storia[1].
Non è un caso che tra i grandi padri del Romanticismo Goethe tradusse l’ode nel 1822 per pubblicarla l’anno dopo. Ma questa prospettiva è figlia di una Storia che ha ormai potuto vedere già 200 anni fa l’inizio del proprio crepuscolo.
[1] Tale impostazione sembrerebbe fare da pendant alla quasi proterva irriverenza che a volte traspare nel libro dei chimici P. Le Couteur e J. Burreson, I bottoni di Napoleone. Come 17 molecole hanno cambiato la storia, uscito all’inizio di questo secolo (2003) con il titolo Napoleon’s buttons e pubblicato in Italia da Longanesi, Milano 2006. In tale libro si racconta e si spiega l’impatto che la chimica ha avuto sulla storia delle società umane partendo da una leggenda secondo la quale una delle cause del fallimento della Campagna di Russia di Napoleone sarebbe stato il cedimento dei bottoni di stagno delle uniformi sbriciolati dal gelo. Pertanto, le condizioni penose dell’esercito avrebbero così costretto l’Imperatore alla ritirata. Come si può vedere, si tratta di una prospettiva scientistica che oggi capovolgerebbe il titanismo e la pietà di manzoniana memoria.