NAPOLEONE E LA MUSICA di Dario e Pietro Aloisio

by Lilibeth

      La musica in Francia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento è dominata da tre compositori italiani, Cherubini, Paisiello e Spontini, oltre ad alcuni francesi, tra cui si ricordano, in particolare, F.-J. Gossec e  J.-F. Lesueur. Per quanto non rientri nel tema proposto, non si può non ricordare che questa è l’epoca che vede il passaggio dalla musica di Haydn, che, pur anziano, compose tra il 1796 e il 1798 la meravigliosa “Creazione”, all’immenso Beethoven, il cui amore/odio nei confronti Napoleone è ben noto.

       Spontini, Paisiello e Cherubini ebbero rapporti eterogenei con l’ingombrante personalità di quell’uom fatal, come lo definì il Manzoni. 

           Gaspare Spontini fu devoto a Napoleone oltre i limiti della cortigianeria, al punto che alla fine dell’impero preferì espatriare, diventando una sorta di dittatore musicale a Berlino per circa 20 anni.       

      La musica di Giovanni Paisiello fu molto apprezzata dall’imperatore,  il quale da sempre era attratto dalle facili melodie; ed infatti proprio a lui  fu affidata la composizione di gran parte delle musiche per l’incoronazione,  tra cui un Te Deum e una Messa contenente la frase, assolutamente extraliturgica, “Salvum fac Imperatorem Napoleonem”.  Come è noto l’incoronazione avvenne il 2 dicembre del 1804 nella Cattedrale di Parigi e nell’occasione Napoleone volle che la cerimonia fosse nobilitata dalla musica del Paisiello, come si è detto, assai apprezzato come esempio di purezza e linearità sonore. In particolare nel Te Deum e nel Credo il compositore tarantino evitò la pompa preferendo, come sua abitudine, il virtuosismo dei solisti, al fine di diffondere sonorità teatrali, il che corrisponde (inconsapevolmente?) alla vera natura della cerimonia, una rappresentazione rassicurante del nuovo Regime, una conciliazione tra le libertà repubblicane e l’ordine sociale.  La Messa comunque fu diretta da Lesueur, che vi inserì una sua Marche triomphale en sol majeur, la cui importanza ideologica è superiore al valore artistico; infatti il fragore guerresco della Marche, nel contesto di una cerimonia (formalmente) religiosa, intendeva ricordare a tutti quale era la vera fonte del potere napoleonico (ossia l’esercito) e, al contempo, assicurare che Napoleone era sì il vero erede dell’Impero romano, ma anche il garante delle acquisizioni repubblicane.  Sembra che gli astanti si resero conto fin da subito che si trattava di una specie di spettacolo, in cui tutto era studiato in anticipo, con una pompa eccessiva e ormai anacronistica; di ciò si accorse, forse, anche l’imperatore il quale, peraltro, molto acutamente, da par suo, in precedenza aveva affermato che “dal sublime al ridicolo non vi è che un passo”.

J.L. David- Le sacre de Napoléon (particolare),
Paris, M. du Louvre

        Invero i gusti musicali di Napoleone non erano particolarmente raffinati; quello che è certo, Egli possedeva un grande “orecchio”, tanto è vero che in vista di una cerimonia i cortigiani gli proposero un’aria di Pietro Generali spacciandola per Paisiello e Napoleone si accorse subito della piccola impostura, in tal modo  confermando di possedere una memoria eccezionale, anche in un settore a lui non congeniale (come è noto era versato nelle materie scientifiche e  nella storia romana). Non si deve dimenticare che Napoleone era e rimase un militare.

            Ed infatti il rapporto con Luigi Cherubini fu travagliato. Si dice che un giorno Napoleone lo affrontò affermando che le sue opere avevano “troppe note” (intendendo che erano complesse e non orecchiabili) e Cherubini, da buon toscano quale era, non rimase in silenzio e replicò scriveva soltanto le note “che  servivano”, aggiungendo in altra occasione più o meno queste parole: “Vostra Maestà evidentemente ama la musica che non lo distragga dagli affari di Stato” (in tal modo, velatamente, accusando Napoleone di superficialità).  Quindi Bonaparte non amava Cherubini, come tale perfettamente ricambiato (e infatti appena dopo la caduta dell’Aquila il fiorentino si mise al servizio di Luigi XVIII e dei legittimisti, accettando di comporre il meraviglioso Requiem in do minore in memoria di Luigi XVI.

       Cherubini, che pure aveva accettato negli anni precedenti di comporre inni rivoluzionari, avrebbe meritato maggiore attenzione da parte di Napoleone, che pure aveva fatto molto affinché la Prima Repubblica sopravvivesse in tempi travagliati.  Inoltre vi era una consonanza tra le idee dell’uno e il programma ideologico dell’imperatore. La musica cherubiniana, si può  sintetizzare, si colloca nell’ambito del neoclassicismo per così dire “morale”, perché per il compositore l’opera lirica aveva lo scopo di  rafforzare le virtù repubblicane, quelle stesse rappresentate nelle Vite parallele di Plutarco, che Napoleone apprezzò fin da ragazzo. Ricordo l’opera “Le due Giornate o il portatore d’acqua”, del 1800, in cui si narra la vicenda di una coppia perseguitata da Mazzarino (alter ego di Robespierre); la musica e la trama fu colpirono profondamente Beethoven, che era alla ricerca di un soggetto per un’opera che lo soddisfacesse: dopo averne scartati molti scelse il “Fidelio”, che ha non pochi elementi in comune con “Le due giornate” (anche in quel caso la vicenda è imperniata su una coppia di coniugi che subisce una persecuzione politica). Beethoven definì Cherubini il maggior compositore drammatico vivente e tra l’altro scelse la sua musica per il proprio funerale (e così avvenne). Anche la celebre “Medea” si colloca nell’ambito del neoclassicismo rivoluzionario, poiché si caratterizza per uno stile severo e come tale fu apprezzata più in Germania che in Italia; la severità consiste anche nel fatto che tutti i personaggi agiscono in modo determinato, senza incertezze, e nel canto non vi è spazio per i virtuosismi à la Paisiello. Ciò ricorda il modus agendi di Napoleone, fin da quando cacciò gli inglesi dalla rada di Tolone, invase l’Italia con un esercito raccogliticcio e mise a ferro a fuoco l’Europa per quasi vent’anni imponendo ai suoi soldati marce forzate mai viste prima.  Bisogna aggiungere che Cherubini, grande esperto del contrappunto, con il tempo riuscì ad elaborare uno stile che fuoriesce dallo schema neoclassico; in particolare il Requiem in do minore possiede una potenza espressiva davvero eccezionale, degna di Beethoven.

J.A.D.  Ingres,  Ritratto di Luigi Cherubini (particolare) ,
Cincinnati Art Museum, USA

Medea resta l’opera più nota di Cherubini e fu amatissima non solo da Beethoven ma anche da Brahms, che la definì l’opera “che noi musicisti consideriamo il vertice del teatro musicale”. Fu rappresentata per la prima volta nel 1797; probabilmente Cherubini captò la forte tensione che aleggiava in Francia, che ben si avverte nella musica, la quale non concede nulla alla melodia italiana alla moda.  Resta comunque il fatto che il tema era noto fin dall’antichità (alle sue origini c’è una tragedia di Euripide), fu ripreso nel Seicento da Corneille ed era adatto per chiunque volesse censurare i comportamenti umani irrazionali e distruttivi. Rispecchia comunque un clima sociale e politico arroventato. Anni dopo, Cherubini, dopo un lungo silenzio operistico durante il quale si dedicò soprattutto alla musica sacra, riprese e concluse la sua carriera operistica nel 1833 con l’opera Alì Babà, una tragédie lyrique, di straordinaria qualità per la varietà di forme musicali e per la ricchezza dell’orchestrazione (qualcuno vi ha intravisto anticipazioni dello stile di Wagner).

        In conclusione, se dal punto di vista politico la parabola napoleonica vede il passaggio dalla Prima Repubblica all’Impero, in cui l’unico elemento comune, in sintesi, è il dominio della borghesia, frutto durevole della Rivoluzione; invece, nel settore musicale, la novità si impone in ritardo, perché convivono a lungo lo stile neoclassico à la Cherubini, compassato, rigoroso (soltanto nei lavori del fiorentino successivi al 1815 si avvertono sonorità preromantiche) e la melodia all’italiana,  che nelle forme risente della musica propria dell’Antico Regime. La vera innovazione, dirompente, si deve a Beethoven e quindi vide la luce fuori della Francia. 

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