L’ULISSE DANTESCO, SECONDO GENNARO PERROTTA di Barbagus

by Lilibeth

Sono riuscito a procurarmi, qualche tempo fa, presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, un raro scritto giovanile di Gennaro Perrotta, illustre grecista e autore di una Storia della letteratura greca che mi accompagnò, affascinandomi, negli anni del liceo.
Si tratta di un libretto, Ulisse, dato alle stampe presso la Casa tipografico-Editrice Giov. Colitti e Figlio, a Campobasso nel 1922, ma che, in realtà, era il testo della conferenza tenuta l’anno prima in quella Città dallo studioso, allora appena ventunenne ma già docente presso il liceo locale, in occasione della celebrazione dei seicento anni dalla morte di Dante.

Siamo oggi a settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, e a cento anni dalla conferenza di Perrotta a Campobasso.

Ho piacere, adesso, di offrire all’attenzione dei nostri lettori alcune pagine di quel testo scritto, nella convinzione che, come è stato per me, anche per chi leggerà adesso queste pagine sarà una bella lettura!

“Ulisse, (…), noi lo ritroviamo, divenuto fuoco, in una bolgia dell’Inferno di Dante, dove le anime appaiono come fiamme, e le fiamme sono tante, come le lucciole l’estate, sul far della sera. Le anime, fasciate di fuoco, appaiono come fuoco, e null’altro: come Eliseo profeta non vide, di Elia, rapito al cielo, se non una fiamma, che saliva come una nuvola.
C’è un fuoco, diviso in due, che attrae l’attenzione dei pellegrini del regno eterno. Virgilio, il dolce poeta, si rivolge a quei due:

O voi, che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi, assai o poco…

Il cantore dell’Eneide si fa umile davanti a due eroi dei tempi, ch’egli amò e cantò, quand’era in vita. Il mite Virgilio li prega, com’egli solo sa pregare, insistendo, ma con un’insistenza temperata d’infinita dolcezza: egli prega e canta. Dovrebbe trovar grazia presso gli eroi, per «gli alti versi», che ha scritti, nel mondo. Ma non li ricorda, per farsene un merito: li ricorda solo perché sa che, per le anime consumate dal fuoco eterno, l’unico refrigerio può essere la rinomanza che suoni ancora, di esse, nel dolce mondo. Il poeta della pietà non può non sentir pietà di quegli eroi, e la dimostra, con tutta la ritenutezza delle anime veramente pietose. Si fa umile e prega; e, pregando, rende già un favore. È commosso nell’intimo, d’una commozione, che esita a trovar le parole e insiste su quelle già dette: la commozione degli spiriti miti.

Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi, mormorando,
pur come quella, cui vento affatica.
Indi, la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse:

Il racconto di Ulisse, sereno e obiettivo come la poesia di Omero, è preparato da questi versi lenti. Ulisse si agita appena: c’è, in lui, la stessa impassibilità di Farinata, senza la rabbia di Farinata: la sua passione è interna. Non per nulla, l’eroe è tutto cinto di fiamme: è diventato fiamma egli stesso; non resta, di lui, che l’eterno: di corporeo, non ha più neppur l’apparenza. Una lingua di fuoco si agita lenta: è qui tutto il modo, per Ulisse, di manifestare la gran passione, che gli tormenta il cuore.
Ulisse è sereno: nella bolgia infernale, come già nella reggia di Alcinoo. Dante stesso, di fronte a Ulisse, rimane muto: parla Virgilio per lui. La ragione è una sola: Ulisse è eroe così grande e così austero, ch’empie la scena della sua grande persona, e risveglia la commozione nei cuori, proprio quando sembra voler bandire ogni commozione. Ma, tra poco, sentiremo, sulle labbra di Ulisse, parlare Dante Alighieri.
L’eroe parla per tutti, e (…) si fa l’Omero della sua ultima odissea: racconta un’impresa che il vecchio cantore non seppe mai.

Ma misi me per l’alto mare aperto,
sol con un legno e con quella compagna
picciola, dalla qual non fui diserto.

Egli mise sé solo, sé solo per il mare; sé solo, contro il mare infinito: con un legno solo e con poca compagnia. C’è tutto l’orgoglio del navigatore, abituato a viaggiare sotto ignote costellazioni. C’è l’orgoglio, con una deviazione lieve: il pensiero affettuoso dei compagni. Pochi furono, ma rimasero con lui fino alla fine: insieme nei pericoli, insieme nella morte.
Dopo un imbarcarsi così tragico, l’eroe descrive il suo viaggio: preciso e freddo nei particolari geografici. Ulisse enumera soltanto:

L’un lito e l’altro vidi insin la Spagna,
fin nel Morrocco: e l’isola dei Sardi,
e l’altro, che quel mare bagna.
…..
Dalla man destra, mi lasciai Sibilia,
dall’altra, già, m’avea lasciata Setta.

È un’enumerazione geografica; ma i nomi, nudi e brulli, non raffreddano il lettore; anzi, aumentano la commozione. Nulla è dolce al cuore dei viaggiatori d’oltremare, come i nomi dei paesi lontani, dove misero il piede; i nomi geografici diventano, per essi, poesia.

Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
quando venimmo a quella foce stretta,
ov’Ercole segnò li suoi riguardi.

Qui siamo vicini al culmine della tragedia.
Noi vedevamo un piccolo legno, con poca compagnia, andare, andare per l’oceano immenso. Ma i marinai, di solito, noi amiamo immaginarceli fiorenti di giovinezza, curvi, sul remo, i petti robusti. Questi navigatori, vecchi e tardi, che veleggiano sul mare deserto, sulla soglia di un nuovo mondo, dànno, alla scena, un’aria grandiosa di tragedia: immaginare una barca sola, sul mare, piena di marinai canuti, che non hanno forze, ma soltanto l’ardore cupo delle loro anime, fa pena.
Viene, infine, l’«orazion picciola», che Ulisse rivolge ai compagni, sul limite del mondo conosciuto, sulla soglia del mondo nuovo.

O frati, dissi, che, per cento milia
perigli, siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
dei vostri sensi, ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
dietro al Sol, del mondo sanza gente.

Fratelli, sono i suoi compagni: fratelli più che mai, ora, di fronte all’ignoto. Tutto quello, che è loro dinanzi, è comune. Un breve sguardo al passato: molto abbiamo vissuto. Un breve sguardo al futuro: poco ci resta da vivere. La vita è vigilia dei sensi; finché i sensi sono desti, bisogna tentar tutte le esperienze. La vita è esperienza. Qui, Ulisse s’inalza anche sull’Ulisse omerico: qui, l’eroe non ha una mèta fissa: la mèta è il mare stesso, eternamente fuggente. La vita è esperienza, per questo eroe. Ma esperienza, senza speranza. Di fronte, c’è il mondo senza gente. Ulisse non cerca più di conoscere costumi strani di popoli strani: ne ha veduti tanti; è stanco, e, forse, non gli interessano più. Come avviene a ciascuno di noi, che, nei dolci anni giovanili, corre dietro a un ideale, a un sogno, a un’illusione, che gli empie il cuore di ebbrezza; negli anni maturi, continua a correr dietro al suo sogno, quando il sogno non c’è più. Egli non crede più al suo ideale, ma continua la corsa, per la stanchezza, perché teme, se si ferma, di cadere e morire; ma non vede, davanti agli occhi, la mèta: la mèta è la strada bianca, infinita.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtude e conoscenza.

Qui i nostri occhi si levano, stupiti. La barca del navigatore è scomparsa: sono scomparsi Ulisse e i suoi vecchi compagni. Qui non parla più Ulisse ai suoi prodi: è l’anima di Dante Alighieri, che si eterna nei suoi personaggi e ha rifatto, con Ulisse, il suo ultimo viaggio, e, a questo punto, si è sostituito al suo eroe. Poiché questo è uno dei miracoli della poesia. Il poeta, trasmutabile per tutte guise, si trasforma in ognuno dei suoi personaggi, creati dalla sua fantasia immortale; e son tutti diversi, perché egli ce li mostra nella luce concreta dell’arte. Ma poi, se riusciamo a ficcar lo viso a fondo, sicché gli occhi non si accechino dal chiarore, noi troviamo ch’essi si somigliano tutti, «tutti fatti a sembianza d’uno solo», e sotto i volti diversi, possiamo scorgere il volto dell’unico creatore.
Il verso di Dante sa diventare voluttà d’amore in Francesca, rabbia di dolore in Ugolino, sospiro di rimpianto nella Pia, canto e luce in Matelda [v. Purgatorio, XXVIII, 40 ss., XXIX- XXXIII, 119: N.d.R.]; ma, quando Francesca si abbandona al ricordo inebriante del suo amore, non parla Francesca, ma Dante, che rivive la sua esperienza dell’amore; quando Romeo [v. Paradiso, VI, 128 ss.: N.d.R.] parte, povero e vetusto, a mendicare un pane, non parla Romeo, ma l’anima di Dante Alighieri, che rivive la sua esperienza dell’esilio. Miracolo grande di poeta, che sembra avere molte anime, e ha un’anima sola, ma un’anima universale, che sa essere, ogni volta che vuole, «una sola sostanza in più persone»!
La picciola orazione di Ulisse è il discorso della passione contenuta, quale si conviene a un tal eroe. Noi non faremo ingiuria a Dante, se la diremo eloquente. (…)
L’Ulisse di Dante somiglia al Teucro di Orazio [N.d.R.: Teucro è il protagonista di una delle Odi di Orazio, ed era certo ben noto a Dante: tornato a casa dopo la guerra di Troia, è scacciato dal padre e s’imbarca, in cerca di una nuova patria]; ma [del Teucro oraziano] è più austero. Austero come uno di quegli uomini, che soffrono, senza parlare: austero come Dante stesso: anche Dante accolse in sé molta esperienza di dolore. Così Ulisse, oltre a impersonare tutti gli altri eroismi, che abbiamo veduti in lui, diventa l’eroe della passione contenuta, cioè l’eroe morale, perché la moralità è, appunto, passione contenuta, cioè lotta continua e vittoria continua, ma continuamente contrastata, del bene contro il male. (…)

Li miei compagni fec’io così aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena, poscia, li avrei tenuti;
e, volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando del lato mancino.

Il discorso di Ulisse è l’abbrivo per la corsa folle, che li spinge, invincibilmente, contro il destino. La ciurma rema, con l’entusiasmo del duce.
Il volo folle è chiuso mirabilmente in tre versi; ed è tutto. Ma il primo è un verso giocondo, che rimbalza tre volte, e poi sembra aprirsi, come una nube, nella chiarità del mattino; il secondo è un verso rapidissimo, come il librarsi d’ali in mezzo al cielo; infine un verso lento e tardo: par di vedere la vecchia ciurma remare. Io credo che il poeta abbia voluto esprimere due cose: la rapidità, e poi la lentezza del volo. Lo stesso volo può essere rapido e lento, guardato con occhi diversi. Rapidissimo, se si ha, nell’anima, il cupo ardore della mèta, e non si vede che quella; lentissimo, se si ha, nell’anima, la fatica e lo sforzo e lo stento, e, insieme, l’ansia di arrivare, perché il cuore arriva sempre prima, troppo prima, delle membra, nelle quali è sigillato. Queste due visioni contraddittorie, di rapidità e di lentezza, devono integrarsi a vicenda, proprio come s’inseguono in due versi consecutivi: noi vediamo una piccola nave volare, volare sulle acque, da sé, da sé, nel mondo senza gente; poi, vediamo i marinai canuti, puntellati il vecchio corpo sul remo, acquistar cammino e remare, disperatamente remare, nel mare profondo.
Ognuno sente che la catastrofe è vicina: appare, di lontano, la montagna del Purgatorio, bruna per la distanza, alta, come l’eroe non ne ha viste mai. Anche il racconto precipita:

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto:
ché, della nuova terra, un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;
alla quarta levar la poppa in suso,
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sopra noi richiuso.

I marinai si rallegrano, ma non ne hanno il tempo. Un turbine, tre giri di nave, il naufragio, e poi il mare si richiude sulla nave e sugli uomini, pacifico come prima. L’ultimo verso è impassibile e sereno: «è come una grande lapide eterna, che Ulisse mura sul suo capo» (…). L’onda si è ricomposta sul capo ai naufraghi; ma noi sentiamo che Ulisse non è morto,

mentre, nel cuore profondo,
sotto nuove nubi e nuove stelle,
passano tre caravelle,
che cercano un mondo.

[da G. Pascoli, Odi e inni,
‘Al Duca degli Abruzzi’, 85-88: N.d.R.]

L’eroe antico ha acquistato, così, in Dante, una grandezza, che, forse, non ebbe mai. Dante, che trasse il suo eroe dal corruscare dell’accesa fantasia, inventò un simbolo eterno, atto a rappresentare l’umanità intera.
(…) L’Ulisse omerico è l’eroe dell’avventura, è l’eroe della sofferenza, è l’eroe del dovere. L’Ulisse dantesco è tutte queste cose insieme, ma sopra tutto, un’altra: l’eroe della conoscenza. Per noi uomini del secolo ventesimo, è ancora l’eroe della conoscenza, ma intesa in un senso più vasto: conoscenza non esterna, ma interna; non solo di mondi nuovi di là degli oceani, ma dei mondi nuovi, chiusi nelle nostre anime. Noi, uomini del secolo ventesimo, non possiamo non andare avanti a un uomo del quattordicesimo secolo: noi piccolissimi, avanti a lui grandissimo, perché, tra lui e noi, molti altri grandi spiriti hanno operato, sofferto, pensato per noi.
Ulisse rappresentava, per Dante, come per noi, l’ardore della scienza, ma così forte e tirannico, da soffocare, nell’anima, ogni altro ardore.
(…) Ulisse è Dante, che varca oceani poetici sconosciuti. Poiché il simbolo è multiplo e mobile, come l’uomo. È impossibile non trasformare i miti antichi. Tutti quelli, che dettero la vita per il progresso e per la scienza, ritrovarono sé stessi in questo vecchio eroe. Ma Ulisse è anche, in un certo senso, ciascuno di noi come uomo, perché ciascuno di noi, nascendo, si trova davanti il dramma della conoscenza. Vivere è conoscere. Ulisse, che ci ammonisce: navigare è necessario, vivere non è necessario, vuol dirci che la conoscenza è più necessaria della vita. (…)”

(G. PERROTTA, Ulisse Casa tipografico-editrice Giov. Colitti e Figlio, Campobasso 1922, pagg. 17-28)

BARBAGUS

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