L’Idea dell’Europa unita ha un cuore antico. Prima che Napoleone inoculasse i germi della febbre nazionalista, che nel vecchio continente è divampata per centocinquanta anni fino al 1945, con oltre venti milioni di morti e devastazioni indicibili (chi pensava che tali germi fossero estinti è stato smentito il 24 febbraio 2022, al confine tra Russia e Ucraina), l’Europa era culturalmente unita, in specie sul piano musicale e parlava una sola lingua, l’italiano.
Già in epoca medievale esisteva un’unità culturale in Europa e non soltanto dal punto di vista musicale. Poiché ogni monastero aveva sviluppato propri segni per indicare la melodia, la Chiesa elaborò un codice unico, la notazione quadrata, tutt’ora in vigore per il canto gregoriano. All’unificazione di scrittura corrispondeva una lingua comune, il latino e un repertorio musicale codificato.
Ma anche in àmbito laico esisteva un’unità di fondo, dovuta alle influenze reciproche: i musicisti fiamminghi furono invitati nelle corti italiane, e dopo aver assimilato la lezione inglese (Dunstable in primis), assorbirono gli stilemi nostrani, e li riportarono al Nord, elaborando una sorta di meticciato musicale. L’influenza italiana si rafforzò con l’avvento del melodramma, nato in ambiente fiorentino e romano alla fine del XVI secolo; l’unica nazione a resistervi (cedendo a condizione che si usasse la lingua francese) fu la Francia, almeno fino a Jean-Baptiste Lully (altro toscano, nato Giovanni Battista Lulli), che unificò la tradizione italiana e la francese nella tragedie lyrique, in cui tuttavia la drammaturgia non era affatto subordinata alla musica, come nel melodramma. Per almeno due secoli i musicisti europei scrissero opere liriche quasi esclusivamente in italiano. L’oratorio, inizialmente su testo latino, al contrario si diffuse in varie lingue nazionali. Queste, in àmbito operistico, ebbero spazio in Inghilterra e in Germania; ma soprattutto negli àmbiti inizialmente limitati dei generi comici del Singspiel tedesco e quello, ancor più limitato, della Ballad Opera inglese. Tra l’altro, i poeti cesarei, in servizio alla Corte di Vienna, erano non solo italiani, ma poeti per musica: Metastasio, Zeno, Stampiglia. Visto che l’opera era cantata in italiano in tutti territori imperiali, ad un certo punto balenò l’idea di fare dell’italiano la lingua franca dell’Impero. E se questa era la lingua comune, gli stili musicali variavano sovrapponendosi o mescolandosi senza scontrarsi. Alcuni musicisti vollero scrivere musica rielaborando gli stili di varie nazioni. Ad esempio, Couperin nel 1724 scrisse Les Goûts réunis , una raccolta di concerti in cui l’Italia era rappresentata dal Piemonte. Dittersdorf scrisse una sinfonia nel gusto di varie nazioni: andantino (tedesco), allegro (italiano), allegretto (inglese), minuetto (francese). Haendel scriveva indifferentemente “all’italiana” o “alla francese” o “all’inglese”. Bach assorbì tutti gli stili, senza muoversi dalla Germania. In breve, tra i musicisti esisteva la consapevolezza di un’unità culturale in cui i vari modelli coesistevano quasi naturalmente.
Tutto ciò sparì con l’avvento dei nazionalismi. All’inizio dell’Ottocento il russo Glinka venne a studiare in Italia, conobbe Bellini e Donizetti, e, una volta tornato in patria, scrisse opere nella sua lingua, attingendo alle vicende e leggende locali. Ciò diede la stura all’opera nazionale. Meyerbeer scrisse in francese (ma rammentiamo la notevole eccezione de Il Crociato in Egitto, su libretto italiano) e in Francia ebbe la luce l’opéra comique, un genere destinato ad uscire dai confini del comico per designare, come avverrà col Singspiel, qualunque opera che mescolasse parti cantate e parlate. Smetana creò il teatro nazionale boemo, musicando libretti in cèco.
C. M. von Weber fu il primo musicista tedesco consapevole delle notevoli potenzialità del teatro musicale nella lingua e tradizione tedesche, allargò i confini del Singspiele tradizionale nella sua opera più celebre, Il Franco cacciatore (le altre sue due opere più note, il fiabesco Oberon e il cavalleresco Euryanthe, sono in lingua tedesca ma interamente musicate, senza parti parlate). Del resto, Beethoven stesso scrisse la sua unica opera in lingua tedesca e in forma di Singspiele.
Il risultato è che nell’Ottocento sparì la tradizione musicale europea, così come si era formata nei secoli precedenti. Non solo. Ma, in conformità con il clima politico, nelle varie nazioni crebbe l’ostilità nei confronti delle forme musicali altrui. Berlioz fu fortemente critico nei confronti della musica di Donizetti e Cherubini (ma, come Wagner, amò profondamente Spontini). I musicisti smisero di vagare da uno Stato all’altro, come era accaduto in precedenza (Haendel, sassone, scrisse in Italia e poi in Inghilterra; Lully ebbe fortuna in Francia; Vivaldi morì a Vienna; il lucchese Francesco Geminiani dal 1714 visse fra Londra e l’Irlanda per morire a Dublino; Domenico Scarlatti, dopo aver peregrinato diversi anni fra Napoli, Venezia e Roma, si trasferì a Lisbona e poi in Spagna; il padovano Giovanni Benedetto Platti dal 1722 fu al servizio del principe-vescovo di Würzburg; Boccherini, lucchese, visse a lungo in Spagna e morì a Madrid; Spontini, dopo un lungo periodo francese divenne Kapellmeister a Berlino e, avvertendo il cambiamento dei tempi, si risolse a musicare libretti in tedesco; Cherubini visse a lungo in Francia, prima sotto Napoleone e poi durante la Restaurazione; ecc.). Anche le influenze reciproche sparirono (unica eccezione: gli spunti wagneriani nell’ultima opera di Verdi, il Falstaff). Soltanto all’inizio del XX secolo riprese il girovagare di musicisti e direttori di orchestra, ma ciò non contribuì alla ricostruzione della koinè musicale.
Resta un dubbio: quando Schiller scriveva l’Inno alla gioia e Beethoven lo musicava, si anticipava il futuro o si celebrava un passato ormai estinto?
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