Il 21 marzo 1804 il Code civil (Code Napoléon)entrava definitivamente in vigore quale prodotto di compromesso tra il passato più remoto e le conquiste rivoluzionarie. Dopo le conquiste militari del Generale Còrso, si applicherà in quasi tutto il territorio italiano, per una stagione seppur breve ma destinata ad influenzare le scelte legislative successive[i].

Con riguardo al diritto di famiglia, il Codice napoleonico mirava a ristabilire un concetto di famiglia autoritario, quale struttura governata da un capo con poteri forti, forgiati su quelli propri del monarca. Tutto ruotava intorno alla figura paterna, dotata di una rigorosa potestà che in linea di massima cessava con la maggiore età (fissata a 21 anni) ma che proiettava la propria ombra anche oltre tale limite quando si trattava d’intervenire sui matrimoni dei figli. Infatti, le figlie fino a 21 anni e i figli fino a 25 necessitavano del consenso dei genitori per sposarsi (in caso di disaccordo bastava l’assenso del padre: art. 148). Il padre, inoltre, esercitava in via esclusiva poteri correttivi: ad esempio il figlio non poteva abbandonare la casa del padre senza il permesso di quest’ultimo (fatta eccezione per il volontario arruolamento al compimento del diciottesimo anno). E accanto ai normali poteri puntivi esercitati in domo, il padre poteva far incarcerare il figlio [e il giudice, purché il giovinetto non avesse compiuto i 15 anni, era tenuto a dar corso alla domanda del padre senza compiere altre indagini né verificare i motivi addotti (art. 376)]. Il padre vantava, inoltre, il diritto di usufrutto sui beni del figlio minore degli anni diciotto, fatta eccezione per i beni acquistati dal figlio con lavoro proprio o donati o legati sotto condizione espressa che il padre o la madre non ne godessero (artt. 384-387).
La tutela ferrea della famiglia legittima, poi, condusse ad una più marcata differenziazione tra figli legittimi e figli naturali rispetto al passato, secondo l’impostazione voluta dallo stesso Napoleone, per il quale la società non aveva interesse ‘a che dei bastardi fossero riconosciuti’[ii]: a costoro vennero pertanto limitati i diritti successori e vietata la ricerca della paternità.
Anche l’adozione fu circondata da una serie di cautele: era accessibile alle sole coppie senza figli che avessero più di 50 anni e che fossero comunque maggiori di 15 anni rispetto all’adottando (art. 343). L’adottando, a sua volta, doveva essere maggiorenne (art. 346) e doveva aver salvato la vita dell’adottante o in combattimento o in un incendio o in un naufragio, oppure doveva aver ricevuto dal genitore adottivo cure durante la minore età per un periodo ininterrotto di sei anni (art. 345). Queste condizioni, certamente improbabili, erano il frutto di una diffidenza crescente attorno all’istituto, di carattere meramente contrattualistico, e tale da lasciare inalterati i rapporti tra l’adottando e la famiglia d’origine. Al rapporto naturale, dunque, si aggiungeva un rapporto civile.
I rapporti coniugali continuavano a registrare la supremazia dell’uomo nei confronti della donna, la quale aveva il dovere di obbedire al marito (art. 213) e l’obbligo di coabitare e di seguirlo ovunque egli avesse intenzione di stabilirsi (art. 214). A carico della donna gravavano, inoltre, una serie di incapacità, quali quella di alienare, donare, ipotecare ed acquistare a titolo gratuito od oneroso.
Relativamente al divorzio, esso veniva permesso per sole tre cause:
– adulterio, con la sostanziale differenza che la moglie poteva fare domanda solo se dimostrava che il marito teneva la concubina nella casa comune (art. 230) [il differente trattamento dell’adulterio maschile e femminile dipendeva dalla diversità delle conseguenze del tradimento perpetrato dall’uno o dall’altro coniuge: l’infedeltà della donna risultava minacciare maggiormente la stabilità della famiglia in virtù della possibile introduzione di figli adulterini (e quindi illegittimi) nella comunità domestica];
– eccessi, sevizie e ingiuria grave (art. 231);
– condanna a pena infamante (art. 232).
Tali situazioni potevano essere alla base anche della separazione, reintrodotta per rispetto delle posizioni cattoliche e unico rimedio residuo per le unioni in crisi, all’indomani dell’abrogazione del divorzio avvenuta in Francia nel 1816.
Gli artt. 1387-1391 lasciavano ai coniugi la scelta sul regime patrimoniale da seguire, attraverso convenzioni che non fossero contrarie al buon costume; in mancanza, il regime legale era quello della comunione, comprensiva dei mobili e degli acquisti, la cui amministrazione era affidata al marito (art. 1421).
Alla caduta del regime napoleonico il Code civil in Italia venne abrogato quasi ovunque o quanto meno messo in discussione. Tuttavia, se è vero che la nuova frammentazione geo-politica cui l’Italia venne sottoposta generò il proliferare di testi, è comunque vero che il codice napoleonico rappresentò un comune riferimento per gli ordinamenti preunitari[iii].
Il ripristino di una società autoritaria indusse a modellare la famiglia sull’immagine patriarcale del sovrano. L’autorizzazione maritale accomuna tutti i codici preunitari con una disciplina molto simile a quella francese: si sanciva l’incapacità della donna a compiere gli atti patrimoniali più significativi. Ovunque il divorzio lascia il posto alla separazione, guardato già con sospetto ai tempi dell’estensione del codice francese ai territori italiani. Unico rimedio contro l’impossibilità di proseguire la convivenza era, quindi, la separazione, concessa ora dall’autorità laica , ora da quella ecclesiastica, per motivi che in parte ricalcano quelli posti dal codice napoleonico a fondamento del divorzio.
Lo Stato nazionale risorgimentale, poi, realizza un’unificazione legislativa, la quale passa attraverso una serie di progetti che si susseguono vorticosamente[iv]. Il risultato fu una serie di scelte di compromesso, particolarmente evidenti in tema di matrimonio. Se fu coraggiosa la reintroduzione del matrimonio civile, in netto distacco con le opzioni preunitarie, imponendone la celebrazione nella casa comunale, innanzi all’ufficiale di stato civile del Comune dove uno degli sposi avesse la residenza o il domicilio e davanti a due testimoni (artt. 93-94), l’illusione di una spontanea adesione popolare alla nuova forma di celebrazione si infranse di lì a pochi anni di fronte ad un’alta percentuale di matrimoni celebrati in Chiesa[v].
La laicizzazione del matrimonio non significò tuttavia accoglimento del divorzio. Come già accaduto durante la vigenza del codice napoleonico, infatti, poche erano state le coppie che vi avevano fatto ricorso; e, vista la condizione di inferiorità economica e culturale della donna, l’indissolubilità, sancita dall’art. 148, fu vista come una forma di protezione nei suoi confronti. Si mantenne così la separazione, nelle due forme di separazione consensuale e per colpa, per cinque cause predeterminate (artt. 150-152) e tassative (art. 149). L’adulterio restava causa di separazione se a commetterlo era la donna, mentre quest’ultima poteva invocarlo nei confronti del consorte solo in caso di mantenimento della concubina in casa o notoriamente in altro luogo o qualora ricorressero circostanze tali da rendere il fatto un’ingiuria per lei grave; costituivano poi ulteriori cause il volontario abbandono; gli eccessi, le sevizie, le minacce e le ingiurie gravi; la condanna a pena criminale; la mancata fissazione della residenza da parte del marito senza alcun giustificato motivo.
Oggetto di animata discussione fu, poi, l’autorizzazione maritale, che subì, nei diversi progetti, vicende alterne. Assente nel testo di Pisanelli del 1863, in cui il Guardasigilli in persona ne ricusò l’utilità, fu ripristinata in risposta a coloro i quali vi scorgevano una ‘moderna servitù’. Quanto ai rapporti patrimoniali tra coniugi, il primo codice civile italiano escluse la comunione universale dei beni, limitata per libera pattuizione ai soli utili. La patria potestà era attribuita ad entrambi i genitori (art. 138), ma esercitata dal padre (art. 220). L’adozione sopravvisse a reiterate critiche, che la volevano addirittura contraria alla natura, ma fu circondata da una serie di cautele: intesa come rimedio alla sterilità delle coppie, era consentita a chi avesse compiuto 50 anni e ne avesse 18 in più dell’adottando (il quale, a sua volta, doveva avere almeno 18 anni: artt. 202 e 206). Questi necessitava del consenso dei propri genitori o dell’eventuale coniuge se viventi (art. 208) e manteneva i propri diritti e doveri nei confronti della famiglia naturale (art. 212).
Gli anni successivi sono, poi, caratterizzati da scarsi interventi legislativi, fatta eccezione per la legge che nel 1919 concederà la piena capacità di agire alla donna. In quegli anni il panorama giuridico è occupato soprattutto dal dibattito dottrinale relativo al divorzio. La scelta del codice unitario di escluderlo dal sistema normativo non acquietò i suoi sostenitori. Infatti, l’oscillazione tra la visione individualistica, che faceva discendere lo scioglimento del matrimonio dalla natura contrattuale del vincolo, e quella sociale, che, pur riconoscendo il valore dell’indissolubilità, vedeva nel divorzio uno strumento di difesa della stabilità delle unioni familiari, impedì ai divorzisti una compattezza ideologica in grado di contrastare il fronte avverso, per buona parte composto da cattolici, ma non solo[vi].
L’immobilità legislativa che connota lo Stato liberale non viene meno, ma assume nuovo carattere con lo Stato fascista. Con i Patti lateranensi si riconosceva al matrimonio canonico, trascritto nei registri di stato civile e sottoposto alla giurisdizione della Chiesa per quanto concerneva la validità del vincolo, la stessa funzione di quello civile: il matrimonio concordatario divenne nell’immediato la forma celebrativa più diffusa tra i cittadini italiani, mentre solo un’esigua minoranza sceglieva il rito civile. L’avvio del lavoro di codificazione civile in età fascista rende evidente l’affermazione di un concetto di famiglia che, in omaggio al nuovo Stato forte, trascende l’interesse del singolo e ne enfatizza i tratti autoritari, accentuando nettamente la distinzione tra famiglia legittima e naturale, retaggio anche questo della codificazione napoleonica. Tuttavia, il nucleo familiare diviene portatore di interessi superiori e quindi di una volontà e di un’organizzazione che trova la propria estrinsecazione nel capofamiglia, il quale non è più titolare di un potere sostanzialmente libero ma di un potere vincolato al perseguimento di fini comuni[vii]. Nello specifico, il I libro del nostro codice civile, entrato in vigore il 1° luglio 1939, mostra una quasi perfetta continuità con le scelte del mondo liberale, anch’esse, di fatto, fondate sulla centralità della figura maschile. Si riproducono quindi immutati gli articoli relativi ai diritti e ai doveri dei coniugi, il differente trattamento dell’adulterio maschile e anche quelli riguardanti la patria potestà. I minori sono oggetto di particolari disposizioni: ad essi è dedicato il titolo XI del codice, con la previsione dell’affiliazione (artt. 404-413) a fianco dell’adozione e di istituti di pubblica assistenza. Tutti gli aspetti patrimoniali restavano ancorati alla tradizione: la separazione era regime legale, mentre la comunione era uno tra quelli convenzionali.
La scelta di affidare la redazione del libro della famiglia a giuristi di formazione tradizionale, rafforzava, quindi, la continuità con il passato, ma si scontrava con il dettato costituzionale del 1948. La Costituzione, infatti, definendo la famiglia come ‘società naturale fondata sul matrimonio’, quest’ultimo ‘ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi’, in cui è diritto e dovere di entrambi i genitori mantenere, educare ed istruire i figli, anche nati fuori dal matrimonio (artt. 29-30), recupera quasi un impianto giusnaturalistico della materia. Sebbene il dettato costituzionale abbia sollevato più di un dibattito interpretativo, non si può non cogliere nel linguaggio dell’art. 29 il rimando all’idea di un’aggregazione che, in quanto di natura, preesiste allo Stato, come ‘‘un’isola che il mare del diritto positivo può lambire soltanto’’[viii]. Dunque, il Costituente, dando attuazione negli artt. 29-30 ai princìpi espressi dagli artt. 2 e 3 di tutela dei diritti della persona, intesa non già come soggetto isolato ma proiettata all’interno delle relazioni sociali, e di riconoscimento del principio dell’eguaglianza, manteneva “lo sguardo fisso sul futuro’’ quando il codificatore del 1942 lo aveva sul passato[ix].
In conclusione, è agevole affermare che la riforma del diritto di famiglia del ’75 (e l’insieme delle leggi speciali che interessarono la materia in quegli anni) trova le proprie premesse normative nella Costituzione del ’48, anche se le ideologie che permeano quest’ultima affondano le loro radici nella lontana epoca napoleonica.
Ilaria Mariateresa Russillo
SSPL LUMSA
[i] O. Taglioni, (a cura di), Codice civile di Napoleone il grande col confronto delle leggi romane, Sonzogno, Milano 1809.
[ii] P.-A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, t. X, Videcoq, Paris 1836, p. 76-77.
[iii] P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Il Mulino, Bologna 2002, p. 125.
[iv] G. Vismara, Il diritto di famiglia in Italia, Giuffrè, Milano 1988, p. 118.
[v] C. Valsecchi, In difesa della famiglia? Divorzisti e antidivorzisti in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2004, p. 131.
[vi] L. Garlati, La famiglia tra passato e presente, in S. Patti, M. G. Cubeddu, (a cura di), Diritto della famiglia, Giuffrè, Milano 2011, p. 44.
[vii] D. Vincenzi Amato, La famiglia e il diritto, in P. Melograni, (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma – Bari 1988, p. 659.
[viii] A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Id., Pagine sparse di diritto e storiografia, Giuffrè, Milano 1957, p. 222.
[ix] G. Dalla Torre, Matrimonio e famiglia. Saggi di storia del diritto, Aracne, Roma 2006, p. 68.