LA  RINNOVATA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE di Lidia Sgotto Ciabattini

by Lilibeth

1.  Premessa storica.

Le importanti novità che, nella prima metà dell’anno in corso, hanno modificato, integrandola, la disciplina sulla tutela del patrimonio culturale suggeriscono alcuni spunti di riflessione attorno a un tema particolarmente cruciale per il nostro Paese. Il loro verificarsi ha, infatti, consentito di completare la riforma della preesistente normativa in difesa dei beni culturali che, sebbene avviata da tempo, fino ad ora era rimasta confusamente frammentata in testi  diversi, e di diversa portata vincolante, traducendosi in una protezione veramente modesta e in una ancor più modesta forza deterrente e sanzionatoria dei reati aventi ad oggetto materiale codesti beni. La consapevolezza di tale situazione, posta in evidenza dagli studiosi come dagli esperti della materia e dai vari addetti ai lavori, si era diffusa anche nel sentire comune dell’opinione pubblica, facendo maturare la pressante domanda di un intervento di raccordo, armonizzazione e integrazione del sistema di tutela del nostro patrimonio culturale. Reiterati disegni di legge si erano proposti di raggiungere tale obiettivo, ma nessuno di essi riusciva a superare l’ostacolo conclusivo della approvazione bicamerale. Sostanzialmente, pertanto, gli unici strumenti di effettivo contrasto e repressione delle azioni lesive, perpetrate ai danni dei beni culturali, restavano quelli della tutela offerta dal solo codice penale. Si trattava, però, di strumenti inadeguati e incapaci di rispondere,  con l’immediatezza e la decisione necessarie, alle sofisticate condotte dei gruppi criminali, che ormai dominavano il  mercato nero dell’archeologia e dell’arte i quali, abbandonati i tradizionali canali di scambio, utilizzavano sempre più spesso modalità commerciali quasi esclusivamente online, molto difficilmente intercettabili per seguirne i percorsi e ricostruire tracciabilità e origine dei beni. Il codice penale del 1930 e la legge 1° giugno 1939 n. 1089, cd. legge Bottai, sorti nel contesto di una realtà storica diversissima da quella via via evolutasi, risultavano inconiugabili con contatti virtuali, sistemi di comunicazione in tempo reale, estrema mobilità di cose e persone; il codice penale, soprattutto, restava ancorato ad una idea di cultura che, seppur correttamente inquadrata nell’àmbito delle funzioni sociali, per avere protezione poteva contare sui soli presìdi posti a difesa della proprietà privata. Un’idea di cultura per certi versi agli antipodi di quella cui s’era del resto venuto ispirando il legislatore costituente, inserendola tra i princìpi fondanti della Repubblica e attribuendo ai beni culturali valenza autonoma e peculiarità propria, meritevole di speciale tutela. Due concezioni evidentemente confliggenti e insuscettibili di sovrapposizione, ma costrette a convivere in un medesimo, limitato spazio normativo nell’indifferenza del legislatore ordinario. Proprio la prolungata inerzia di quest’ultimo ha contribuito alla costante, e impunita, erosione del nostro sterminato patrimonio culturale, impedendo alla giurisprudenza di svolgere, anche con riguardo a questa materia, quella funzione propulsiva e di orientamento che ad essa è propria.

2. Le spinte provenienti dalle Convenzioni internazionali.

Bisogna ricordare che un primo impulso significativo nella direzione dell’auspicato rinnovamento della disciplina di protezione del patrimonio culturale era già stato impresso, sul finire del secolo scorso, dal Testo unico delle disposizioni legislative in tema di beni culturali e ambientali (d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490), impulso rafforzato, dopo pochi anni, dall’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, nr. 42), con il quale, superando la staticità sostanziale che, fino ad allora, aveva caratterizzato l’atteggiamento della protezione pubblica, il legislatore configurava a carico di quest’ultima il preciso còmpito dinamico della “preservazione della memoria della comunità nazionale e del suo territorio“ e della “promozione dello sviluppo della cultura”. Nel Codice medesimo era stata anche abbozzata una prima definizione di “beni culturali”, identificati (art. 2 comma 2) nelle “cose mobili e immobili che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico, bibliografico e le altre cose, individuate dalla legge o in base a leggi, quale testimonianze aventi valore di civiltà”. Pur nella sua evidente imprecisione e incompletezza, questa formula era, comunque, espressione della volontà di cambiare il concetto di tutela fino ad allora prevalente, intervenendo anche sull’apparato sanzionatorio inasprendolo. Sia la genesi che la maturazione del Codice erano state significativamente influenzate dalle varie Convenzioni internazionali che, negli ultimi decenni del Novecento, avevano allargato l’orizzonte d’intervento di tale tutela, ampliandone il campo d’azione anche oltre i confini degli Stati e ponendo in evidenza l’aspetto, ancora poco considerato, della circolazione dei beni culturali,un fenomeno divenuto cosìfrequente e complesso che il controllo ne era divenuto estremamente difficile. L’insufficienza di una protezione limitata al solo territorio nazionale era stata già segnalata dalla Convenzione Unesco adottata a Parigi, il 14 novembre 1970 (recante “Misure per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali” e ratificata in Italia con la l. 30 ottobre 1975, n. 873), ribadita dalla Convenzione Unesco firmata a Parigi, il 23 novembre1972 (recante “Protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale” e ratificata in Italia con la l. 6 aprile 1977, n. 184) e riproposta al centro del dibattito internazionale soprattutto dalla Convenzione Unidroit, firmata a Roma il 24 giugno 1995 (e ratificata dall’Italia con la l. 7 giugno 1999, n. 213), in cui era stato anche ufficializzato uno specifico obbligo di restituzione dei beni culturali rubati, o illecitamente esportati dai Paesi d’origine. Il recepimento di tali Convenzioni nell’Ordinamento degli Stati firmatari aveva rivoluzionato gli stessi criteri ispiratori delle loro normative interne, rendendoli, quasi inavvertitamente, protagonisti di una nuova realtà, forse prima inimmaginabile, in cui vigevano sia il principio, comune e condiviso, della solidarietà internazionale in difesa della cultura, sia l’obbligo di sostenere il diritto di ogni popolo di proteggere le testimonianze identitarie della propria civiltà. Un principio capace di equiparare Paesi ricchi e Paesi poveri, livellandoli nell’uguale impegno di garantire la fruibilità pubblica dei beni culturali e del paesaggio: al di là di ogni confine, al di sopra degli interessi economici privati, della cupidigia, dell’avidità, dell’egoismo e del desiderio di possesso esclusivo dei singoli. A tale fine mirava, introducendo il concetto di necessaria integrazione tra gli strumenti di contrasto al crimine organizzato transnazionale, anche la United Nations Convention against Transnational Organized Crime (UNTOC, adottata dall’Assemblea Generale il 15 novembre 200, aperta alla sottoscrizione a Palermo il 12-15 dicembre 2000 e ratificata dall’Italia con la l. 16 marzo 2006, n. 146), vera antesignana della riconosciuta pari dignità, meritevole di pari  difesa, di ogni patrimonio culturale. Grazie alla successiva Convenzione-Quadro del Consiglio d’Europa (Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, siglata a Faro, in Portogallo, il 27 ottobre 2005, sottoscritta dall’Italia nel 2013 e ratificata con la l. 1° ottobre 2020, n. 133), incentrata sul valore per l’intera società rappresentato dall’eredità culturale, veniva formulata una nuova nozione di patrimonio culturale, definito all’art. 2 lett. a della Convenzione come “un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, costantemente in evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione nel tempo fra le persone e i luoghi”. Una definizione evidentemente inedita e illuminante, perché inclusiva di tutti i beni percepiti da un Paese come identitari della propria cultura e della propria storia, indipendentemente dalla loro qualificazione ufficiale di “beni culturali”.

2.1. La Convenzione di Nicosia.

A rafforzare, e meglio chiarire. questa rinnovata prospettiva interveniva la Convenzione del Consiglio di Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali, firmata a Nicosia il 19 maggio 2017, ratificata dall’Italia con l. 21 gennaio 2022, n. 6, e che, proponendosi di “prevenire e combattere il traffico illecito e la distruzione dei beni culturali”, si basava sull’impegno, assunto da ogni Stato firmatario – tra cui l’Italia –, di emanare, e poi far rispettare, norme che configurassero le condotte aventi ad oggetto materiale i beni culturali come fattispecie criminose sanzionate in misura proporzionata alla gravità dei fatti e da perseguire in modo particolarmente efficace, con i medesimi strumenti usati per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. La Convenzione, sebbene a tutt’oggi ratificata da soli otto Stati, costituiva pertanto il principale strumento internazionale vincolante dedicato alla tutela penale del patrimonio culturale, permettendo l’utilizzo di più incisivi mezzi di repressione del traffico illecito, del danneggiamento e della distruzione dei beni culturali, grazie anche alla prevista collaborazione di numerose organizzazioni internazionali quali l’Unione europea, l’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto privato (UNIDROIT), l’UNESCO e l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). Anche la Convenzione di Nicosia interveniva sul concetto stesso di “bene culturale”, cercando di superarne la ancóra incerta definizione con la specificazione delle due categorie di “beni mobili” e “beni immobili”, di cui stilava un dettagliato elenco (art. 2 comma 2 lett. a e b). Particolare rilievo assumeva, però, quanto dichiarato nella Convenzione stessa a proposito della qualifica di “bene culturale” attribuita ad un oggetto dal suo Paese di origine, attribuzione considerata presupposto sufficiente per fare scattare la specifica tutela, restitutoria e sanzionatoria, a protezione di tutti i beni importati illecitamente, rubati o scavati senza alcuna autorizzazione, o trasferiti all’estero senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione.

3. La legge n. 22 del 2022.

Il 23 marzo 2022 entrava quindi in vigore, per effetto dell’espressa clausola di sua immediata operatività (art. 7), la legge 22 marzo 2022, n. 22 (recante Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale), con la quale il legislatore, traducendo in strumento attuativo le disposizioni della Convenzione di Nicosia, si è proposto di riorganizzare in maniera unitaria la normativa riguardante la tutela dei beni culturali, armonizzando finalmente, anche sul piano pratico, la preesistente disciplina con i princìpi costituzionali fissati con l’art. 9 della Carta. Con la nuova legge è così stato introdotto nel codice penale il nuovo Titolo VIII bis, recante i “Delitti contro il patrimonio culturale” articolati in tredici distinte incriminazioni, alcune delle quali inedite, altre, invece, già contemplate da norme, ora espressamente abrogate, del Codice dei beni culturali, riconoscendo alla specificità dell’oggetto (il bene culturale) la funzione di tramutare in più grave il reato comune, con conseguente inasprimento della pena. Per effetto di questa  nuova normativa la tutela codicistica del “patrimonio storico e artistico della Nazione” è stata elevata al rango costituzionale, ottenendo anche particolare risalto all’interno dell’intero sistema penale. La legge ha, inoltre, previsto la punibilità degli illeciti commessi all’estero, testimoniando la consapevolezza del legislatore sulla realtà transnazionale del mercato “oscuro” dell’arte, mercato molto simile, per vastità e contesto economico, a quelli della droga e delle armi. Come era prevedibile, nonostante che numerosi rilievi, anche molto critici, abbiano accompagnato la sua pubblicazione, con riferimento sia alla posizione del nuovo Titolo all’interno del codice, sia ai contenuti stessi dei nuovi articoli, alla nuova legge è stato comunque riconosciuto il merito di aver qualificato il bene culturale come bene “di categoria”, in quanto contraddistinto da unicità, irripetibilità, deperibilità e irripristinabilità. Qualità che lo rendono annoverabile tra i più rilevanti interessi della comunità universale come “testimonianza materiale avente valore di civiltà” anche per le generazioni future, ponendosi come oggetto del diritto fondamentale di ogni individuo, riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di partecipare alla “vita culturale del proprio Paese” (v. la Relazione di accompagnamento alla legge). La l. n. 22, cit., ha pertanto consentito di superare la tutela penale indiretta, basata sul generico regime privatistico dei beni e di passare ad un sistema di tutela penale diretta del patrimonio storico-artistico, avente per oggetto “la cosa d’arte”.

4. La sentenza della Sezione II civile della Suprema Corte, 18 febbraio 2022, n. 5349.

Nel recente panorama, così integrato e vivificato, si è inserita, arricchendolo in modo particolarmente significativo una pronuncia giurisprudenziale che, prima ancóra dell’entrata in vigore della l. n. 22, cit., ha saputo cogliere tutti i segnali di rinnovamento espressi dalla cennata lunga stagione della riforma, traducendoli concretamente nella sentenza della Sezione II civile della Suprema Corte, 18 febbraio 2022, n. 5349. La sentenza ha definitivamente concluso una controversia, dall’iter giudiziale lungo e complesso, che aveva avuto inizio nel 2007 con la denuncia, presentata dal Console Generale del Perù al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Milano, per segnalare che una nota galleria d’arte della città poneva in commercio rarissimi manufatti tessili di civiltà precolombiana privi di qualsiasi autorizzazione all’uscita dai loro Paesi di origine, Perù e Cile. Dalla denuncia era scaturito un procedimento penale a carico del titolare della galleria, accusato di ricettazione e contrabbando relativamente a 17 oggetti tessili, facenti parte di vari corredi funerari e illegittimamente esportati dai due Stati dell’America meridionale. Con proprio decreto del 20 giugno 2008 il p.m. aveva quindi sottoposto i manufatti al vincolo di sequestro probatorio, affidandone la custodia ai Consolati Generali degli Stati di origine. Sebbene quel provvedimento fosse poi stato revocato dal g.i.p., i beni rimanevano di fatto nella disponibilità dei Consolati, inducendo il gallerista – che invano ne aveva reclamato la restituzione – a presentare un’istanza cautelare per ottenerne il sequestro conservativo dal Giudice civile monocratico. Questi, con ordinanza del 19 maggio 2011, dichiarandosi privo di giurisdizione (ex art. 43 Convenzione di Vienna in tema di relazioni consolari), respingeva la domanda. Il gallerista proponeva, allora, reclamo al Collegio, ottenendo sia il sequestro giudiziario dei beni, ancora trattenuti dai Consolati, che la nomina a custode dei beni medesimi. La relativa ordinanza rimaneva, tuttavia, priva di effetto pratico, per essersi i Consolati rifiutati di ottemperarvi, inducendo il gallerista a radicare davanti al Tribunale civile di Milano un’azione per ottenere, previo accertamento del suo diritto di proprietà sui manufatti contesi, la condanna dei Consolati Generali, e dei loro rispettivi Consoli, la restituzione dei beni sequestrati e il risarcimento dei danni, patrimoniali e no, derivati dalla mancata riconsegna. Il Giudice disponeva una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare il valore dei manufatti, ma il Consolato Generale del Perù presentava alle Sezioni unite della Suprema Corte ricorso per regolamento di giurisdizione, provocando la sospensione del procedimento di merito. Conclusosi il regolamento con il riconoscimento dell’esclusiva applicabilità al caso di specie dell’ordinamento dell’Italia, luogo in cui i manufatti si trovavano al momento del sequestro, il Tribunale di Milano pronunciava la sentenza nr. 1077/2016, di rigetto di tutte le domande di parte attrice. La sentenza veniva immediatamente impugnata dal soccombente che, nel ricorso in Appello, ne denunciava i numerosi vizi (dall’impropria applicazione estensiva a beni  provenienti da paesi diversi dall’Italia del Codice dei beni culturali; all’attribuzione di efficacia concreta alla Convenzione UNESCO 873/1975 avente invece solo valore programmatico; all’utilizzazione di normative straniere, non operanti in Italia e quindi inapplicabili al caso di specie; all’ingiustificata nullità attribuita a regolari trasferimenti tra privati della proprietà dei beni culturali; all’erroneità della asserita valenza retroattiva data alle norme di tutela del patrimonio culturale; al mancato accoglimento di tutte le domande risarcitorie e di indennizzo). L’appellante richiedeva, quindi, il riconoscimento del diritto di proprietà su tutti gli oggetti in contestazione, con condanna degli appellati alla immediata riconsegna e al risarcimento, in via solidale, di tutti i  danni, quantificati in euro 300.000,00, oltre alle spese di lite. Contestazioni e richieste tutte puntualmente opposte dalle difese dei Consolati Generali del Perù e del Cile (anche quest’ultimo, che in primo grado era rimasto contumace, si era infatti regolarmente costituito nel giudizio di appello) eccependo l’assoluta incommerciabilità di beni culturali privi di documentazione idonea a giustificarne la circolazione e ponendo in evidenza la mancanza del requisito della buona fede nella condotta di un appellante che, per la straordinaria competenza in materia, da lui stesso vantata, non poteva difendersi asserendo l’inconsapevolezza della natura e del valore di quei manufatti tessili né della necessità di documentarne la attendibile tracciabilità dei percorsi. Con la sentenza n. 2252/2017, particolarmente accurata e attenta, la Corte di appello di Milano respingeva il ricorso, richiamando espressamente quanto dichiarato dalle varie Convenzioni internazionali in materia, sottoscritte e ratificate dall’Italia, per porre in evidenza l’intento della Comunità internazionale di difendere  efficacemente i beni culturali di ogni Paese, riconoscendoli  come elemento fondamentale di civiltà e di cultura e dichiarando che la preservazione di tale loro valore dipende dalla effettiva possibilità di verificare con la più grande precisione l’origine, la storia e l’ambiente di essi. Tale convincimento, tradottosi in un principio universale di ordine pubblico recepito da tutte le Convenzioni internazionali sulla tutela dei patrimoni culturali, ha obbligato, secondo la Corte, tutti gli Stati firmatari tra cui l’Italia, ad inserirlo nel proprio ordinamento, con la conseguenza che la violazione di detto principio determinava la nullità del titolo di proprietà vantato dal gallerista, quindi l’esclusione di qualsiasi suo diritto al risarcimento di danni inesistenti. La vicenda processuale proseguiva ancora con il ricorso alla Suprema Corte cui il gallerista,  rivendicando la sua piena assoluzione da ogni ipotesi di reato ottenuta nel processo penale, come presupposto incontestabile della sua legittima proprietà dei beni culturali controversi e come base incontestabile per l’automatico accoglimento delle richieste presentate ai giudici civili del merito, chiedeva la cassazione della sentenza d’appello. Resistevano i Consolati Generali del Cile e del Perù, insistendo per la conferma della sentenza della Corte di appello e la condanna alle spese dei tre gradi di giudizio. la Suprema Corte, confermando in toto la sentenza di secondo grado, respingeva il ricorso, compensando, però, le spese di giudizio per la novità delle questioni trattate e per l’assenza di pregressi orientamenti giurisprudenziali al riguardo. Nella motivazione della sentenza, confermando i passaggi essenziali del percorso decisionale seguìto dalla Corte milanese, la Corte Suprema stabilisce alcuni princìpi essenziali che aprono una prospettiva diversa nella tutela concreta del patrimonio culturale.

Il primo di essi riguarda l’irrilevanza del percorso penale e del suo esito assolutorio sulla decisione del procedimento civile nel quale spetta all’attore, che ha vantato  la legittima proprietà del bene, dare prova convincente della sua buona fede al momento dell’acquisto in riferimento al tipo di azione esperita. Un onere probatorio che, quindi, riguardando la fondatezza del rivendicato titolo di proprietà, ha indotto i giudici del merito all’esame della documentazione governativa asseritamente idonea ad autorizzare l’esportazione, concludendo che, tra quelli prodotti, non vi era alcun documento giustificativo dell’acquisto, né dell’autorizzante all’esportazione. Tale conclusione, travolgendo il presupposto stesso dell’intera vertenza con l’esclusione di un valido titolo di proprietà dei beni culturali in capo al ricorrente, non gli consentiva di vantare alcun diritto sui beni medesimi.

Il secondo principio concerne il momento della valutazione della buona fede rilevante ai fini dell’art. 1153 c.c. e che, come già ritenuto dal Giudice dell’appello, non è soltanto quello della consegna del bene, ma anche e soprattutto quello del trasferimento della proprietà, determinante per rendere legittima la sua circolazione. Anche la Suprema Corte, seguendo il più recente orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., Sez. II, 28 febbraio 2019, n. 6007 [ord.], e Id., Sez. II, 4 febbraio 2021, n. 2612), ha sottolineato “l’indispensabilità” della sussistenza della buona fede, da escludere nel caso di specie per uno dei maggiori esperti di arte tessile antica, condividendo il criterio espresso dall’art, 4 della Convenzione UNIDROIT, come si è detto recepita dall’ordinamento italiano, che subordina l’indennizzo in favore del possessore del bene di provenienza illecita alla prova che egli non poteva ragionevolmente sapere dell’illegittima provenienza del bene medesimo.

Il terzo principio riguarda l’inesistenza del diritto alla restituzione dei manufatti, o ad un qualsiasi indennizzo correlato alla custodia dei beni contesi, così come chiesto dal ricorrente, anche se il provvedimento di sequestro è stato annullato e la restituzione è stata disposta con un’ordinanza disattesa dai Consolati. La Suprema Corte, infatti, allineandosi alle Convenzioni internazionali cui sopra si è fatto cenno, riconosce l’esigenza di garantire la fruibilità pubblica dei beni culturali che, per la loro intrinseca natura di testimonianza della storia e della civiltà di un popolo, non possono legittimamente far parte del tesoro privato di un collezionista. Questi, infatti, seppure assolto dai reati imputatigli in sede penale, avendo acquistato i manufatti (cui tanto teneva) senza accertarsi della regolarità della loro esportazione dai Paesi di origine, si è reso quantomeno colpevole di colpa grave e non può, quindi, in mancanza di un legittimo titolo di proprietà, rivendicare alcun diritto alla restituzione dei beni stessi, come correttamente deciso dai giudici dell’appello.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha, quindi, aperto una prospettiva coraggiosa e determinante per una tutela effettiva del patrimonio culturale di ogni Paese, ponendo implicitamente un obbligo ineludibile da osservarsi anche da parte di musei, gallerie d’arte e di oggetti archeologici, collezioni di reperti di antiche civiltà, di accertare la provenienza di tutti i beni facenti parte dei loro rispettivi corredi, nonché di restituire quegli oggetti e quelle opere risultanti privi di regolare autorizzazione all’uscita dei Paesi di origine.

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