“Una pompa teatrica”, questo l’icastico giudizio di cesare Cantù[1] sul processo penale importato in Lombardia dai Francesi, così come disegnato compiutamente dal Code d’instruction criminelle, del 1808, voluto da Napoleone il Grande.
Su queste tre parole probabilmente troverebbero un accordo, sia pure con prospettive opposte, e con finalità diverse, sia i sostenitori del processo scritto di matrice inquisitoriale sia i fautori del processo all’americana immaginato dai Giacobini, i primi giudicando le aperture all’oralità un pericoloso vulnus alla speditezza e alla genuinità degli accertamenti, i secondi ravvisando il difetto capitale del processo penale napoleonico proprio nella poca o nulla oralità, creduta l’unico strumento per “avvicinare” la verità. Anche su questo, ai posteri l’ardua sentenza?
Per il momento basti un dato oggettivo: il Code d’instruction criminelle è il fondamento del modulo c.d. “misto” che consta in scarsa oralità, ridotto formalismo, limitato contraddittorio, apertura alla pubblicità dei dibattimenti, a cui appartiene la maggior parte dei codici continentali in materia processuale penale del XIX e XX secolo; nel sistema italiano dopo la riforma del 1988 tale modulo sopravvive tuttora nei riti alternativi e nella fase di impugnazione e, con limitate tracce, anche nel rito ordinario, improntato – come è noto – ai principi del contraddittorio, dell’oralità, dell’immediatezza e della pubblicità, con limitate eccezioni.
Nel Code d’instruction criminelle del 1808 si verifica un compromesso tra la procedura inquisitoriale, caratterizzata da cinque fasi, tutte affidate al magistrato istruttore[2] e il sistema accusatorio recepito con la Rivoluzione francese, contrassegnato dal ricorso alle giurie popolari sia in fase di accusa che in fase di giudizio, dalla piena attuazione dell’oralità e dell’immediatezza, dalla minima e irrilevante influenza delle indagini preliminari rispetto alla fase d’accusa e al dibattimento. Si parla di un compromesso perché con il Code d’instruction criminelle si ritorna alla modalità inquisitoria con innesti adversarial (nella fase dibattimentale);il riflusso comunque aveva avuto inizio in precedenza[3].

Per provare l’assunto basteranno questi accenni, anche mediante rapidi confronti tra la procedura penale regolata dall’Ordonnance criminelle del 1670(O.C.)[4]in cui il modulo inquisitorio raggiunge l’acme e il Code d’instruction criminelle (C. I. C.)[5] e tra quest’ultimo e il codice Vassalli.
Il processo penale di primo grado disciplinato dal codice del 1808 prevede due fasi essenziali: l’istruzione, modellata sullo schema dell’Ordonnance criminelle[6],e il giudizio, contraddistinto da pubblicità, tendenziale oralità, piena assistenza difensiva. All’esito dell’istruzione, gestita dal procuratore imperiale in caso di flagrante delitto ed ipotesi equiparate, ovvero dal giudice istruttore (nella generalità dei casi), quest’ultimo relaziona al collegio che delibera il non luogo a procedere, ovvero la messa in stato di accusa dell’incolpato (si tratta di un atto del procuratore imperiale contenente gli estremi del reato e la citazione dell’accusato davanti al tribunale di polizia, al tribunale correzionale, alla corte d’assise, o alle corti speciali); con l’atto di accusa ha inizio la fase del giudizio, che si svolge davanti ad un collegio composto da giudici laici (giuria) e giudici togati (corte d’assise) o davanti a giudici togati (altre corti).
La fase istruttoria del processo forgiato dai giureconsulti di Napoleone appare, a ben vedere, la riedizione, riveduta e corretta, di quella disciplinata dall’Ordonnance criminelle, riesumata dopo le sperimentazioni dell’epoca rivoluzionaria. Nonostante la variazione e l’aggiornamento della terminologia, le analogie sono impressionanti per quanto riguarda l’ordine, la forma e la funzione dei vari atti che compongono il processus iudicii, nonché il metodo di acquisizione della conoscenza. Un profilo di difformità tra le due procedure attiene al potere del giudice di prendere iniziative istruttorie e quindi compiere attività di accertamento in carenza di richiesta del procuratore pubblico: nel Code d’instruction criminelle non resta alcuna traccia dell’inquisitio sine actione o actio ex officio iudicis;il potere di domanda di spetta unicamente al procuratore pubblico, in quanto parte “artificiale”, che rappresenta la società nella sua pretesa di giustizia contro il reo; il passaggio dal predominio al monopolio del procuratore pubblico sull’azione penale conferma il carattere autoritario del sistema elaborato dai giureconsulti di Napoleone, in linea con la politica generale. Appare utile rilevare che l’attribuzione del potere di indagine al pubblico ministero, sia pure in casi limitati, apre la breccia che porterà al (tendenziale) monopolio istruttorio della parte pubblica, riconosciuto per la prima volta nel codice Vassalli.
Come accennato, gli esiti possibili dell’udienza consistono nel proscioglimento (art. 229 C.I.C.), nella remissione dell’incolpato al tribunale di polizia o al tribunale correzionale (laddove siano ravvisabili a carico dell’incolpato indizi di un reato che porti una pena non infamante: art. 230 C.I.C.), nella remissione dell’incolpato davanti alla Corte di assise straordinaria o davanti alla Corte speciale (laddove siano riscontrati a carico dell’incolpato indizi di un reato che comporti una pena almeno infamante: art. 231 C.I.C.). Il procuratore generale è tenuto a formare l’atto di accusa, contenente l’indicazione delle generalità dell’imputato e del fatto a lui attribuito (art. 241 C.I.C.).
Quanto al metodo di accertamento dei fatti il Code d’instruction criminelle conserva in toto nelle fasi istruttorie, fino al momento anteriore all’udienza, il principio di segretezza che caratterizzava la procedura penale voluta da Luigi XIV: gli atti di indagine non si compiono alla presenza del querelato (art. 73 C.I.C.); anche l’interrogatorio non è garantito; l’indagato non compare all’udienza per la deliberazione dello stato d’accusa (art. 223 C.I.C.); la deliberazione dello stato d’accusa avviene in segreto (art. 225 C.I.C.); non si hanno confronti tra indagato e testimoni d’accusa (arg. ex art. 228 C.I.C.); il querelato e il difensore eventualmente nominato non hanno conoscenza degli atti del processo fino al giudizio vero e proprio; quando ha luogo l’interrogatorio dell’accusato, questi è all’oscuro di tutto, poiché fino a quel momento, se arrestato, non ha potuto comunicare con nessuno, e comunque in ogni caso non ha conoscenza prove a suo a carico. Egli acquista cognizione delle dichiarazioni testimoniali e delle altre prove soltanto nel corso dell’interrogatorio disposto dalla Corte nel corso del procedimento per lo stato d’accusa (art. 237 C.I.C.) e poi con la notifica dell’atto di accusa (artt. 241-242 C.I.C.); soltanto nel corso del dibattimento l’intera istruzione gli sarà disvelata.
Altre analogie tra i due testi normativi riguardano:
– il disfavore difensivo: il Code del 1808tace sulla facoltà dell’indagato di nominare un difensore durante la fase istruttoria; la prima volta che il codice accenna alla figura del difensore lo fa nell’art. 294, che concerne l’interrogatorio dell’accusato davanti al presidente della Corte d’assise, prima dell’inizio dell’udienza pubblica[7] (il nostro codice vigente invece attribuisce ampio spazio alla difesa, anche in fase di indagine preliminare);
-la derogabilità delle forme: in tema di nullità il Code del 1808appare talvolta più benevolo dell’Ordonnance[8]:la violazione dell’ordo processualis in tanto può comportare un’interruzione della sequenza, con rischio di regressione e conseguente pregiudizio per gli interessi collettivi alla rapida punizione dei rei, se ed in quanto ciò provochi offesa ad un valore sostanziale primario; sicché il ricorso alla sanzione della nullità è raro e ben ponderato (il nostro codice invece riconduce alle violazioni processuali sanzioni di vario genere, dalla nullità relativa alla inutilizzabilità delle prove, fino alla responsabilità disciplinare dei magistrati);
-il principio della conservazione del materiale probatorio, in base al quale la legge autorizza il ricorso a fonti di conoscenze che il principio di oralità dovrebbe inibire; dall’esame delle norme appare evidente come anche il materiale istruttorio formato nel segreto sia utilizzabile per la decisione mediante lettura; ciò colora di antico anche il dibattimento e con esso l’intero processo, al di là dei proclami[9] (il nostro codice invece ha ripudiato il suddetto principio, autorizzando le letture soltanto in caso di irripetibilità delle dichiarazioni e in poche altre situazioni eccezionali).
Quanto alle dichiarazioni testimoniali non confermate in udienza per mancata comparizione del testimone, non si rinviene, contrariamente a quanto disposto dall’art. 365 codice brumale dell’anno IV, un espresso divieto di lettura dei testimoni assenti; anzi l’art. 477, relativo ai processi in contumacia, autorizza la lettura in udienza dei verbali contenenti le deposizioni dei testimoni non comparsi per qualunque causa e tutti gli altri scritti ritenuti utili dal presidente per la decisione. L’art. 341, poi, nel disporre che “Il presidente consegnerà ai giurati l’atto di accusa e i verbali … diversi dalle dichiarazioni scritte dei testimoni”, immette legalmente nel materiale fruibile dai giurati i verbali di interrogatorio; mancando una esplicita sanzione, la lettura dei verbali di testimonianze e la conseguente utilizzazione degli stessi per la deliberazione non giustificano l’annullamento della stessa[10]; fin dal 1817 la Cassazione riconosce al presidente, in forza della norma di cui all’art. 268 C.I.C., il potere discrezionale di procedere alle letture[11].
Infine, le due procedure mostrano la massima difformità nella fase decisoria: mentre l’Ordonnance conserva i canoni tradizionali del processo inquisitorio segreto, scritto, forgiato dal giudice, il Code d’instruction criminelle recepisce dall’esperienza rivoluzionaria i princìpi di pubblicità, oralità, contraddittorio. Tuttavia, l’incidenza del materiale conoscitivo formato nel segreto e al di fuori del contraddittorio sulle cognizioni plasmate in udienza, come si è visto, permette di vedere questa come un ampliamento della fase precedente, più che come il momento unico di costruzione della prova. In questo senso i due modelli si riavvicinano; si può sostenere che il Code mutui le forme del giudizio dalle procedure dell’epoca rivoluzionaria, ma conservi in gran parte l’ideologia e lo spirito sottesi all’Ordonnance: ne fanno fede la concezione del processo come ricerca della verità (arg. ex artt 268- 319 co 3); – il rigetto del principio dispositivo puro (arg. ex art. 268, 289, 319, 327); – l’efficacia probatoria degli atti istruttori pregressi scritti (arg. ex art. 318); – il ripudio del metodo dialettico puro (arg. ex art. 267, 319).
Quanto alle regole del giudizio, mentrenell’Ordonnance criminelle l’accertamento sul fatto è affidato a giudici togati (un giudice istruisce, un collegio di giudici delibera se proseguire nell’azione, un altro collegio di giudici delibera sulla fondatezza della domanda di punizione in cui l’azione penale consiste), il Code d’instruction criminelle distingue invece tra questione di fatto, che è sottoposta ai giurati, e questione di diritto, riservata ai togati; la regola trova un’eccezione rilevantissima (artt. 351-352 C.I.C.) con la conseguenza che nel caso da essa contemplato i togati concorrono indirettamente con i giurati nella deliberazione sul fatto.
Non è da negarsi un certo disfavore del legislatore napoleonico nei confronti della giuria, istituzione di origine anglosassone, introdotta nell’ordinamento francese dalle leggi rivoluzionarie e conservata solo grazie alla tenace opposizione nel Consiglio di Stato del partito dei favorevoli[12] e, nella commissione per i lavori preparatori, all’insistenza di J. B. Treilhard; alla fine il prezzo del compromesso sono: l’abolizione della giuria d’accusa, dopo che Napoleone in persona si è espresso in questo senso[13]; la creazione di Corti speciali, prive di giuria, per reati commessi da vagabondi, sfaccendati, condannati a pene afflittive o infamanti (art. 553 ss.); lo stravolgimento del ruolo della giuria nella Corte d’assise, dove il peso dei togati sui giurati rispetto al passato è crescente, per “numero, composizione, poteri”[14].

Con riguardo alle regole per la formazione della prova, il Code d’instruction criminelle richiede che l’udienza sia pubblica, il dibattimento orale[15]; tutto sembra dipendere da quanto in esso avvenga; tuttavia, la procedura scritta incombe come un velo: in base all’art. 318 C.I.C: “Il presidente farà prendere ricordo dal cancelliere delle aggiunte, mutamenti o variazioni che potrebbero esistere tra la deposizione di un testimone e le precedenti sue dichiarazioni. Il procuratore generale e l’accusato potranno instare al presidente affinché ordini che sia fatta menzione di tali aggiunte, cambiamenti e variazioni”. In questo modo, tramite l’evidenziazione del contrasto, quanto emerso nel passato riemerge ed incide sul convincimento dei giurati. Inoltre restano margini per l’accertamento ex officio iudicis; l’art. 269, menzionato dall’art. 319 C.I.C., autorizza il presidente a “convocare innanzi a sé anche con mandato di accompagnamento e sentire ogni qualità di persone, farsi produrre le nuove carte e oggetti che emergeranno in seguito agli approfondimenti emersi nell’udienza sia da parte degli imputati, sia da parte dei testimoni, al fine di chiarire il fatto contestato”; per di più, in base all’art. 319, “Il presidente potrà chiedere al testimone e all’accusato tutti i chiarimenti che riterrà necessari per l’accertamento della verità”; più in generale, in forza dell’art. 268 C.I.C., “Il presidente è investito di un potere discrezionale in virtù del quale potrà assumere tutte le iniziative che riterrà utili per discoprire la verità …”.
Anche il principio del contraddittorio è attenuato, dato che le parti private non possono formulare direttamente le domande ai testi: in forza dell’art. 267 C.I.C. “(il presidente) sarà incaricato personalmente … di presiedere ad ogni istruzione e dare un ordine a coloro vorranno prendere la parola”.
Con riguardo alle regole per la deliberazione vige il principio dell’intime conviction[16] nato e cresciuto unitamente al modello processuale rivoluzionario in cui la libertà di valutazione delle prove subiva un limite nel modo “orale-pubblico-immediato-in contraddittorio” di formazione delle prove. Allorché tale modello, già prima del 1808, viene nella sostanza ripudiato, il principio del libero convincimento perde i connotati originari, si trasforma in una sorta di principio dell’“assoluto convincimento”, in base al quale non vi sono limiti per il giudice nella scelta del materiale utile per la decisione, inerenti e derivanti dal modo di acquisizione dello stesso[17]; come si intuisce, si rientra nel solco della tradizione inquisitoria del processo come ricerca illimitata della verità ed anzi si supera e si giustifica il superamento del limite all’arbitrium iudicis che la tradizione giuridica tardo medievale aveva introdotto predisponendo il sistema delle prove legali[18].
Per concludere, il processo disciplinato dal Code d’instruction criminelle consiste nell’assestamento, con qualche reminiscenza antica, del sistema scaturito dalla Rivoluzione sulla base delle nuove idee elaborate e del nuovo spirito introdotto dai philosophes? O forse, all’esito di una più accurata analisi, si risolve in un abile maquillage a copertura di un’inquisitio di ritorno? In effetti, l’analogia tra tante norme e la concezione di fondo del processo come momento di applicazione in chiave repressiva della superiore legge dello Stato fanno propendere per la seconda tesi (per quanto – è innegabile – qualche novità gravida di effetti di lunga durata ci sia). Così si spiegano la crescente rilevanza del pubblico ministero, in quanto rappresentante del potere politico presso le corti giudiziarie; il principio della detenzione preventiva, intesa come garanzia della collettività contro il singolo pericoloso; la derogabilità, salvo espressa indicazione contraria, delle regole sulle forme, concepite in modo che la loro rigidità non ostacoli la ricerca della verità[19]; il potere di indagine del giudice del dibattimento, al di là e finanche contro le prospettazioni delle parti[20]; l’accettazione della difesa tecnica più come freno dell’arbitrium iudicis e rimedio all’errore giudiziario che come mezzo di accertamento della verità[21]; la diffidenza verso la giuria, concepita come rischioso intruso in un sistema gerarchico, burocratizzato, devoto al potere[22].
Come il codice penale, anche il Code d’instruction criminelle del 1808 consiste in “una compiuta realizzazione … della perfetta corrispondenza tra sistema politico e sistema penale…”[23]; questo, e il profilo compromissorio tra antico e moderno spiegano il motivo della sua fortuna, con il suo recepimento, nei codici ottocenteschi, anche molto dopo la caduta di Napoleone: per quanto ci riguarda, fino al codice processuale italiano del 1930. Le cui tracce sono rimaste anche nel sistema ideato dal ministro Vassalli, almeno fino alla riforma costituzionale del c.d. giusto processo, generata dalla reazione politica alla crisi di rigetto dei primi anni ’90 (una controriforma giudiziaria?) e dal pressing dei giudici di Strasburgo.
Eppure … Chi calca le scene processuali da molti anni, guardando alla moderna riedizione del processo penale voluto dai Giacobini, non di rado (oppure quotidianamente) pensa che Cesare Cantù … (ma il resto non si può dire, pena l’accusa di lesa maestà!).
Pierluigi Cipolla
Magistrato, Docente SSPL
[1] Citato in A. Zorzi, Venezia austriaca, LEG Edizioni, Gorizia 2000, p. 54.
[2] Fase di attivazione ex officio, sulla base di denunzia, cattiva fama o elementi indiziari raccolti da ufficiali minori; fase istruttoria o informativa, consistente nella raccolta, in segreto, degli elementi di prova a carico dell’accusato (testimonianze, bastandone due dirette e concordi per la condanna, ed indizi); fase difensiva, consistente nella predisposizione di scritture da parte dell’accusato; seconda fase istruttoria, consistente nella reiterazione delle testimonianze davanti all’accusato; fase decisoria. Sul punto, cfr. G. Alessi, voce Processo penale (dir. interm.), in Enc. dir., vol. XXXVI, Giuffrè, Milano 1987, p. 376.
[3] Il canone della segretezza dell’indagine preliminare fu ristabilito dopo che erano stati toccati con mano gli inconvenienti dell’istruttoria pubblica, orale, in contraddittorio, davanti alla giuria, introdotta per la prima volta dalla legge del 19-22 luglio 1791, confermata dalla legge 16-22 settembre 1791, e dalla legge 3 brumaio dell’anno IV e già profondamente riformata dalla legge del 7° giorno del mese pluvioso dell’anno X.
[4] Per il testo integrale dell’Ordonnance criminelle del 1670, v. https://ledroitcriminel.fr/la_legislation_criminelle/anciens_textes. V. pure N. Picardi, A. Giuliani, (a cura di), Code Louis, t. II, Ordonnance criminelle, Giuffrè, Milano 2002, p. 1 ss.
[5] Per il testo integrale del Code d’instruction criminelle del 1808, v. https://ledroitcriminel.fr/la_legislation_criminelle/anciens_textes. La traduzione italiana del codice può leggersi in N. Picardi, A. Giuliani, (a cura di), I Codici napoleonici, t. II, Il Codice di istruzione criminale, 1808, Giuffrè, Milano 2002, p. 1 ss.
[6] Il processo penale di primo grado disciplinato dall’Ordonnance criminelle è ripartito in quattrofasi, le prime tre presiedute dal lieutenant criminel (o da giudici minori quali prevosti, baglivi, ecc.): 1) pre-istruzione, formata dall’acquisizione della denuncia o querela (plainte) e dalla decisione del giudice sulla richiesta istruttoria del procuratore pubblico (ordonnance portant permission d’informer); 2) istruttoria preliminare, scandita in cinque momenti: sopralluogo o ispezione (procez verbal des juges) e relative conclusioni del procuratore del re; raccolta delle deposizioni testimoniali indicati dal procuratore pubblico o dalla parte civile e relative conclusioni del procuratore pubblico (information); emissione ed esecuzione dei decreti concernenti l’accusato; interrogatorio dell’accusato; richieste del procuratore del pubblico e sentenza sul prosieguo (reglement a l’extraordinaire, reception en procez ordinaire, liberazione dell’accusato); laddove sussistessero indizi di colpevolezza: 3) istruttoria definitiva, instaurata dal reglement a l’extraordinaire, composta dalla reiterazione della deposizione dei testi (recolement), dal confronto tra imputato e testimone o tra coimputati; conclusioni del procuratore pubblico; e la quarta (decisoria, visite du proces), è interamente segreta, ufficiosa, prevalentemente scritta, non garantita da difesa tecnica (se non per casi circoscritti e limitatamente all’ultima fase).
[7] Nel sistema strutturato dall’Ordonnance, soltanto dopo l’interrogatorio, laddove non si verta in reati capitali, l’inquisito poteva conferire con chi volesse, quindi anche con un avvocato per un parere tecnico (tit. XIV, art. 9); e ciò in conformità con l’ideologia inquisitoria di matrice assolutista (Pothier giudicava la disposizione che vietava l’assistenza legale innanzi il primo interrogatorio “savissima, perché un accusato non sia distolto dal confessare la verità e non gli vengano suggeriti mezzi da travisarla”: G. R. Pothier, Trattato della procedura criminale, in Id., Trattati del diritto francese, tomo IV, p 1171, ed. it., Fratelli Vignozzi e Nipote, Livorno 1838, p. 1204. Sulla stessa linea, naturalmente, Pussort, che nella discussione sul testo definitivo dell’art. 8 tit. XIV elencò alcuni degli espedienti adoperati solitamente dai difensori per “immortaliser” i processi e procurare l’impunità ai loro assistiti: rilevare conflitti di giurisdizione, inventare “subtilites”, eccepire nullità procedurali, far nascere continui incidenti (Procez verbal des conferences tenues par ordre du Roi entre messieurs les commissaires du Conseil et messieurs les députés du Parlement de Paris pour l’examen des articles de l’Ordonnance criminelle du mois d’Aout, 1670, tit. XIV art. 7, pubblicate in N. Picardi, A. Giuliani, (a cura di), Code Louis, t. II, Ordonnance criminelle 1670,appendice, Notes sur l’Ordonnance, Giuffrè, Milano 1996, p. 165); al contrario, in modo del tutto opposto la pensava Lamoignon (sul punto v. Procez verbal, cit., p. 162).
[8] Nella procedura penale Ancien regime il rispetto delle regole sulla forma degli atti non costituiva dovere inderogabile del giudice, poiché alla luce del concetto di processo come ricerca della verità, la violazione delle forme, ove costituenti ostacolo a tale ricerca, era sostanzialmente tollerata; erano presenti tuttavia comminatorie di sanzioni pecuniarie o interdittive a violazioni formali, dettate dalla crescente diffidenza nei confronti dei magistrati e del personale giudiziario, e tali da non intralciare la prosecuzione dell’accertamento.
[9] V. art. 329 C.I.C.: “Durante il corso delle deposizioni il presidente farà mettere sotto gli occhi dell’accusato tutte le carte e oggetti relativi al delitto, e utili per la formazione del convincimento, invitandolo ad asserire personalmente se li riconosce o no. Le farà parimenti mettere, se necessario, sotto gli occhi dei testimoni”; già da questo momento il materiale conoscitivo inerente ai fatti sia pure indirettamente entra nella sfera dello scibile dei giurati, idoneo ad essere rielaborato per la decisione; – art. 318 C.I.C.: “Il presidente farà prendere ricordo dal cancelliere delle aggiunte, mutamenti o variazioni che potrebbero esistere tra la deposizione di un testimone e le precedenti sue dichiarazioni. Il procuratore generale e l’accusato potranno instare al presidente affinché ordini che sia fatta menzione di tali aggiunte, cambiamenti e variazioni”: così anche le deposizioni rese nel segreto entreranno indirettamente nella sfera cognitiva dei giudici; proprio per la libertà nella valutazione della prova, non è detto che in caso di contrasto tra quanto ascoltato in udienza e quanto formalizzato nei verbali si dia credito al primo.
[10] Sul punto, J. F. C. Carnot, De l’instruction criminelle, considerée dans ses rapports generaux et particuliers, P. J. De Mat, Bruxelles 1830, IV, p. 272, sub art. 341.
[11] Cass., 10 gennaio 1817, in A. Esmein, Histoire de la procedure criminelle en France et specialement de la procedure inquisitoire depuis le XIII siecle jusqu’a nos jours, Paris 1882, reprint Sauer & Auvermann, Frankfurt am Main 1969, p. 567. Sul sistema delle letture in epoca rivoluzionaria e napoleonica v., in particolare, P. Ferrua, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Giuffrè, Milano 1981.
[12] Sul punto, v. A. Esmein, op. cit., p. 470 ss.
[13] Avendo reputato che persone profane del diritto non fossero le più adatte a formare un corretto giudizio di pura probabilità, quale è quello insito nell’atto di accusa (così A. Esmein, op. cit., p. 521).
[14] Così, F. Hélie, Theorie du code de l’instruction criminel, I, n. 537, Meline, Cans et Compagnie, Bruxelles 1842.
[15] Nell’Ordonnance persiste il dominio del segreto e del metodo fondato sulla relazione bipolare tra giudice e imputato (l’udienza non è pubblica, si riduce alla lettura degli atti delle fasi istruttorie precedenti e all’interrogatorio dell’imputato; il giudizio si fonda quindi sui verbali e su quanto emerso dall’interrogatorio).
[16] Il Code d’instruction criminelle nell’art. 342 descrive i canoni cui i giurati si devono attenere nel momento della deliberazione: “La legge … non prescrive alcuna regola dalla quale possano far dipendere la pienezza e la sufficienza di una prova; essa prescrive … di interrogarsi nel silenzio e nel raccoglimento … La legge non dice loro in modo alcuno ‘voi reputerete per vero qualunque fatto attestato dal tale o tale numero di testimoni’; non dice loro: ‘voi non considererete stabilita ogni prova che sarà formata da un tale processo verbale, dai tali documenti, da tali testimoni o da tali indizi’. Essa non fa che questa sola questione che contiene tutto il complesso dei loro doveri: ‘avete voi una intima convinzione ?’. Nell’Ordonnance criminelle invece la materia veniva disciplinata da una serie di norme puntuali, sparse in numerosi articoli del titolo XXV, tale da dare luogo al sistema delle prove legali.
[17] Sul punto M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffrè, Milano, 1974, p. 19.
[18] Scrive F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1991, p. 554 s.: “Il libero convincimento diventa un grimaldello in mano al giudice soi pensant onnisciente. … Quale passe-partout illegalistico fosse diventato il ‘libero convincimento’ risulta ancora meglio sotto un secondo aspetto: le conclusioni storiche non solo legalmente precostituite; il giudice se le raziocina ma uscirebbe dal sistema se usasse fonti vietate. È piuttosto ovvio: ‘prova a valutazione libera’ non significa che siano valutabili anche le inammissibili o male acquisite, ma così avviene spesso e ‘libero convincimento’ diventa la formula d’una gnosi onnivora in perfetto stile inquisitorio.”.
[19] Cfr. F. Hélie, Theorie, cit. nella nota 14, I, § 539, p. 178: “(le code) a omis surtout, et ceci est un reproche beaucoup plus grave, d’ajouter une sanction sérieuse aux dispositions liberales qu’il renferme; on y trouve des formules trop vagues, et peu de garanties certaines”.
[20] Si considerino gli artt. 268, 269, 319, 326 comma terzo C.I.C.
[21] Si considerino a questo proposito le ammonizioni del presidente al difensore, prescritte dall’art. 311 C.I.C.
[22] Si considerino gli artt. 351, 352 C.I.C., per quanto attiene alle procedure davanti alla Corte d’assise e la normativa sui processi senza giuria (davanti alle Corti speciali, art. 553 ss. C.I.C., e davanti ai tribunali di Polizia, art. 137 C.I.C.).
[23] A. Cavanna, Il codice penale napoleonico, qualche considerazione generalissima, in Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia (1811), ristampa anastatica, con scritti vari raccolti da Sergio Vinciguerra, Cedam, Padova 2001, p. XI.