EGITTOLOGIA ED EGITTOMANIA NEL RINASCIMENTO E NELL’ETÀ BAROCCA di Massimiliano Kornmüller

by Lilibeth

Nel primo Rinascimento italiano, all’interno delle riscoperte letterarie degli Autori greci e latini, nacque una corrente volta a ricercare quanto in essi rimaneva della sapienza dell’Antico Egitto.

Tale corrente influenzò anche le arti figurative, dividendosi in due filoni, quello dell’Ermetismo e quello della Scienza Geroglifica.

Con il termine Ermetismo viene definita quella corrente di pensiero sviluppatasi in Alessandria d’Egitto nei secoli II-III a.C. avente ad oggetto scritti di natura misteriosofica che si riteneva fossero scritti da Ermete Trismegisto, da identificarsi con il dio egizio Toth, considerato l’inventore della scrittura e della magia.

Questa corrente ebbe nuova vita con l’arrivo a Firenze del manoscritto del Corpus Hermeticum,giudicato da Cosimo de’ Medici così importante che lui ne chiese sùbito a Marsilio Ficino una traduzione completa dal greco al latino, facendogli addirittura interrompere quella delle opere di Platone che stava curando. Si credeva, infatti, che fosse stata ritrovata parte di quei «quarantadue libri indispensabili di Ermete» di cui parla Clemente Alessandrino (Stromata, VI, 4,35 ss. )e che contenevano tutta la saggezza degli Egiziani! In realtà, però, nel secolo XVII il Casaubon dimostrò che i testi erano opera della Scuola Alessandrina del secolo II a.C., e il ritrovamento di alcuni di questi testi nei Papiri di Nag Hammadi ha confermato la validità della dimostrazione.

L’importanza attribuita ai testi – che constano di quattordici trattati (probabilmente riuniti nell’odierno ordine da Michele Psello nel secolo IX d.C., più uno chiamato Asclepius già noto in età medievale) e che parlano, in forma di dialogo, dell’unicità e dell’armonia del cosmo e dei profondi legami che interagiscono tra Dio, il Cosmo, l’Anima e l’Uomo (ivi compreso l’influsso degli astri e della magia e di un particolare ramo di questa, la talismanica, scienza volta a creare protezioni astrali [amuleti] e potenziamenti astrali della propria azione terrena [amuleti], e la telestica, in grado di animare le statue per farle divinare o compiere altre operazioni occulte) – è data dal fatto che venivano considerati come la prova della Prisca Sapienza di Ermete Trismegisto e quasi fonte diretta di rivelazione divina, al pari di Mosè!

L’Egitto tornava nuovamente con prepotenza in Occidente, influenzando anche le arti figurative: pensiamo solo alla Primavera del Botticelli (1480), ove Hermes, che appartiene all’elemento dell’aria, dissipa le nuvole della mente e gioca con esse muovendo le nuvole di vapori in modo che la verità possa filtrare giù dai cieli e penetrare fino a noi senza accecarci.

Nella Firenze di Cosimo de’ Medici si credeva di aver trovato, tramite il Corpus Hermeticum, non solo l’antica sapienza egizia, ma addirittura anche la chiave per interpretare la misteriosa scrittura geroglifica. E questo, tramite gli Hierogliphyca di Orapollo, giunti a Firenze nel 1422 e, dopo un’ampia diffusione per manoscritti, stampati per la prima volta a Venezia nel 1505 per i tipi di Aldo Manuzio.

Di certo già Marsilio Ficino (1433-1499), che aveva tradotto nel frattempo anche il De Mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum et Assyriorum, doveva aver letto l’opera, se si esprimeva così quando commentava Plotino riguardo all’Enneade V (8 ss.): «I saggi egiziani, quando volevano disegnare le cose con saggezza, non si servivano di lettere che si sviluppano in discorsi e proposizioni e che rappresentano suoni e parole: essi rappresentavano delle immagini (…) e ogni immagine è dunque una scienza e un sapere, un ente reale e totale, non un ragionamento o una deliberazione».

Ficino, in altre parole, sostiene nel suo commento alle Enneadi plotiniane che i geroglifici non siano altro che simboli del pensiero divino. Ed altri Autori del primo Rinascimento italiano, indagando sui misteri egizi, furono influenzati anche dalla traduzione ficiniana dell’opera di Giamblico.

Orapollo, secondo il lessico bizantino Suda e Zacaria lo Scoliaste, è verosimilmente da identificarsi in Orapollo di Nilopoli, vissuto sotto Zenone (474-498), il quale diresse una delle ultime scuole di filosofia pagana, quella di Menouthis presso Alessandria (si consideri che l’ultima scuola, la Scuola di Atene, fu chiusa da Giustiniano nel 529 e che Damascio, il suo ultimo scolarca, fu costretto ad emigrare ad Harran presso i Sassanidi).

Purtroppo, Orapollo (che visse nel V secolo e, cioè, in un’età tarda: l’ultima iscrizione in caratteri geroglifici pare infatti sia quella che porta il nome dell’imperatore Decio, ed è del sec. III d.C.) non aveva più la conoscenza per leggere i geroglifici. Egli ce ne fornisce pertanto solo un’interpretazione simbolica: questa fu la concezione prevalente dei geroglifici in età rinascimentale e barocca, concezione che di fatto impedì ogni ulteriore progresso per la vera comprensione di essi come forma di scrittura letterale, senza che si pensasse che potessero avere un valore anche fonetico e grammaticale, cosa che fu scoperta solo da Champollion nel secolo XIX.

Il Cinquecento, con il diffondersi esponenziale della stampa in tutta Europa, vide un fiorire di edizioni e commenti di testi di argomento egiziano, sì che nacque una vera e propria egittomania.

Questa proseguì in Età barocca, ma non smise di influenzare neanche il pensiero razionalistico e scettico settecentesco (si pensi al massonico Rito egizio, creato da Giuseppe Balsamo detto Cagliostro).

Nella temperie culturale rinascimentale, i geroglifici e il Corpus Hermeticum furono intesi solo come simboli di una Prisca Theologia. E l’Accademia Romana di Pomponio Leto investigò proprio questo argomento, con lo scopo, però, di restaurare l’antica religione politeista di Roma, quasi epigona della Civitas Jovis di Giorgio Gemistio Pletone a Mistrà (complice molto probabilmente il Concilio di Firenze del 1439 ed il cardinal Bessarione); e per questa ragione l’Accademia venne chiusa, su ordine di Pio II.

Di lì a poco, però, Alessandro VI Borgia, a sua volta influenzato dall’egittomania, fece affrescare dal Pinturicchio i suoi appartamenti in Vaticano con scene egizie raffiguranti Iside, Osiride e il bue Api: il geroglifico dello stemma dei Borgia, che raffigurava un toro, cripticamente simboleggiò il Pontefice come nuovo re sacerdote egizio, ovvero Faraone!

Anche l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1467, ma stampata da Manuzio nel 1499) è esemplificativa di questa tendenza egittologica.

Il protagonista Poliphilo, vagando come Dante in un viaggio astrale, ma questa volta in un mondo pagano, scopre in alcune rovine di monumenti alcuni hieraglyphi, in realtà non di derivazione egiziana, ma di interpretazione di fregi di sarcofagi romani. (Furono quei poetici ritrovamenti di rovine ad ispirare il Bernini quando disegnò, quasi due secoli dopo, su commissione di un appassionato lettore dell’opera letteraria, Maffeo Barberini ovvero Urbano VIII, l’Elefante obeliscoforo, poi realizzato in scultura da Ercole Ferrata in Piazza della Minerva: si vedano le due illustrazioni in epigrafe al presente articolo, recanti i disegni berniniani).

Questi hieraglyphi, con la loro interpretazione filosofica moraleggiante, ebbero profonda influenza in tutto il Rinascimento europeo, tanto che possono essere considerati i capostipiti della cosiddetta Scienza degli Emblemi e delle Imprese, o Emblematica, che, arricchita anche da elementi tratti dall’Araldica, fu coltivata con folle passione per quasi tre secoli. (L’origine dell’Emblematica però è italiana: basti pensare all’Emblematum liber di Andrea Alciato, agli Hieroglyphica di Pierio Valeriano, all’Iconologia di Cesare Ripa, al Trattato sulle imprese di Torquato Tasso, all’Idea delle perfette imprese di Emanuele Thesauro, al Ragionamento sulle Imprese di Paolo Giovio e al Delle imprese di Simone Bargagli.)

Lo studio dei geroglifici non poteva non essere incluso nell’universale programma di studi di Athanasius Kircher (1602-1680), che fu l’ultimo sostenitore dell’ideale unitario del sapere, così come inteso nell’Umanesimo rinascimentale.

Kircher, infatti, trattò ogni ramo del sapere nei suoi mirabili libri (patrocinati dall’imperatore Ferdinando III d’Asburgo), ricchi di splendide illustrazioni, i cui argomenti variavano dall’ottica (Ars magna lucis et umbrae) al magnetismo (Magnes seu de arte magnetica), alla musica (Musurgia universalis), alla geologia (Mundus subterraneus), alla geografia (China illustrata), all’astronomia (Iter extaticum celeste) ed alle antichità dell’Oriente (Turris Babel), ed infine all’Antico Egitto.

L’Egitto fu trattato da Kircher in più opere: nell’Oedipus Aegyptiacus, nell’Obeliscus Pamphili, quale omaggio alla dinastia del pontefice regnante (Innocenzo X Pamphili), e, soprattutto, con riguardo alla presunta possibilità di tradurre nuovamente i geroglifici egizi in lingua, nel Prodromus Coptus, nella Lingua Aegyptiaca restituta e nella Sphynx Mistagoga.

Circa queste ultime opere aventi ad argomento lo studio dei geroglifici egiziani e della loro lettura, Kircher aveva come fonti, oltre a quelle citate classiche dell’Umanesimo Rinascimentale, anche il trattato De symbolica Aegyptiorum sapientia di Niccolò Caussin (1631) e soprattutto il Lessico arabo-copto, che Pietro Della Valle aveva portato con sé dall’Oriente. (Nei suoi numerosi viaggi il Della Valle arrivò in Mesopotamia, lì trovando una ziggurat, da lui descritta per la prima volta, a Palmira, a Baalbek e a Petra, dei cui monumenti redasse i disegni che ispirarono non poco il Borromini per le sue facciate: sposò in viaggio una principessa armena, di cui riportò la mummia a Roma, essendo morta nel frattempo…).

Il Lessico arabo-copto fu la base del Prodromus Coptus di Kircher: il copto era la lingua degli egiziani cristiani non convertitisi all’Islam e derivava direttamente dalla lingua egiziana antica (così come l’italiano deriva dal latino).

Anche se il merito di Kircher fu quello di aver posto gli Storici, i Teologi e gli Studiosi tutti in contatto con il mistero della decifrazione dei geroglifici, i suoi sforzi di tradurre i geroglifici in lingua non portarono però a frutti scientificamente attendibili.

Ebbene, fino al secolo XVII la lingua copta era ancora parlata in alcune regioni dell’alto Egitto, secondo Johann Michael Vansleb (1635-1679): oggi è una lingua morta, utilizzata come lingua liturgica nelle cerimonie della chiesa copta.

Fu proprio la conoscenza della lingua copta che diede a Champollion la chiave per la decifrazione dei geroglifici, avendo lui intuita la natura fonetica delle immagini scolpite, a discapito dell’interpretazione teorico-simbolica.

Conoscendo il copto, egli riconobbe il nome della figura rappresentata dal geroglifico e soprattutto della sua lettera iniziale, che è quella con cui si deve leggere il suono del geroglifico (per esempio: il geroglifico che raffigura lo sgabello:         ha come iniziale in copto la lettera = P; quello che raffigura il pane:          ha come iniziale in copto la lettera = T, che sono le iniziali del nome in copto di Tolomeo: ovvero Ptlumys ).

Ma, rispetto all’epoca dei lavori di Kircher, sarebbero dovuti passare due secoli perché Champollion avesse queste intuizioni.

Kircher, infatti, si basava ancora sulla concezione umanistica neoplatonica espressa in Plotino e in Giamblico, con le considerazioni di Marsilio Ficino.

In Plotino i geroglifici sono la rappresentazione diretta delle essenze, esempio di una conoscenza archetipica nata (previa iniziazione) da uno shock mistico-simbolico e non da una successione di argomenti logici.

Per Giamblico invece i veri geroglifici sono gli animali, le piante gli altri elementi naturali con cui la divinità parla agli uomini di sé stessa: il sacerdote non fa altro che copiare ciò che è già scritto nel gran libro della natura.

Se vogliamo, Kircher si differenzia in questa maniera dagli Autori precedenti: da buon gesuita qual era, cristianizza la concezione panteistica di una glorificazione della Divinità attraverso la sua Creazione e sceglie dal Libro della Natura quelle immagini che sono funzionali ai libri delle Sacre Scritture, quasi a teorizzare una Prisca Theologia monoteistica da cui sarebbe sorta la religione ebraica e quindi quella cristiana.

L’Antico Egitto avrebbe iniziato a parlare per davvero solo più tardi…

Romae, Kal. Feb. MMXXIII

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