DALLE RIVE DEL NILO A PARIGI: ANTICO EGITTO E AVANGUARDIA MODERNA di Fabrizio Campanella

by Lilibeth

(fotografia dell’opera di Henri Rousseau “The Sleeping Gypsy” realizzata da Stephen Sandoval sul sito Commons Wikipedia)

Ci sono momenti, nell’evoluzione della storia del pensiero e quindi anche dell’arte, in cui la genesi di nuovi modelli di riferimento, e di nuovi traguardi, sembra aver bisogno, per germogliare, di liberarsi innanzitutto dai condizionamenti impliciti a una tradizione, a una mentalità, a un insieme di codici di espressione, e di linguaggio, che potremmo definire imperanti, in una data epoca, ma che proprio per questo si sente l’urgenza di superare. Non vedrà la luce, il “nuovo mondo”, se non saprà mollare gli ormeggi che lo ancoravano al vecchio ordine per crearne uno diverso, auspicabilmente migliore, certamente più attuale nell’accezione di una sua maggiore sintonia e consonanza con la coscienza di una contemporaneità ancora da costruire, ma gravida di promesse.

Questo rifiuto, da parte della “nuova frontiera”, di un passato prossimo, ossia di un “sistema” fino ad allora vigente, si è tradotto paradossalmente in Francia, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in un’attrazione per il passato remoto delle antiche civiltà dell’Oriente, dell’Africa, e persino dell’Oceania, intese come culture “vergini”, non contaminate dalle sovrastrutture e dalle stratificazioni intellettuali dell’Occidente positivista e industrializzato, in accordo con un profondo desiderio di attingere alla perduta armonia tra uomo e natura, e con essa alla fonte, alla radice stessa dell’epopea umana. Il concetto di epos, di qualcosa di leggendario, e nel contempo di misterioso, che sopravanza la sterile cronaca del presente, relegava quest’ultima, così, all’irrilevanza, di contro all’esigenza di costruire, sul piano iconico in primis, un universo parallelo in cui l’immagine assumesse un valore simbolico piuttosto che reale.

Il rifugio nel mito, l’arcaismo, erano stati caratteri, pur con accentazioni totalmente diverse, già familiari al Romanticismo, ma qui la circostanza presuppone viepiù, per le grandi avanguardie in ascesa, una lotta senza quartiere alla pittura accademica. Dagli Impressionisti in poi, l’irrisione dei professori e dei critici tradizionalisti, e cioè dei difensori della verosimiglianza, della prospettiva, dell’incarnato, della velatura, della solidità statuaria delle forme, poggiava sullo stigma indirizzato a quelle tele “annacquate” e senza sostanza, a quei colori gettati senza criterio, a quelle pennellate in evidenza che creavano disordine, a quelle forme abbozzate, tagliate e assolutamente prive di grazia. I motivi di scandalo potrebbero proseguire all’infinito, ma il dato che li accomunava tutti era uno solo: la mancata applicazione delle regole, l’ostentata ignoranza di un’esecuzione e interpretazione ortodosse che conferissero al soggetto la sua piena riconoscibilità secondo i rigori dell’attinenza a una rappresentazione “ottica” delle cose. Mostrarle per come potrebbero essere, invece che per come sono, era considerato inammissibile, perché avrebbe insidiato una veridicità della “scena” senza la quale, per gli esteti del tempo, non vi era la prova di nulla.

I Cubisti e i Fauvisti andavano nella direzione diametralmente opposta. Innamorati anch’essi dell’Oriente, della scultura preistorica, delle maschere negre, vi scorgevano la spontaneità, l’energia primordiale di una sintesi espressiva che, saltando a piè pari i paradigmi del piacevole e del “bello”, avrebbe potuto stravolgere il concetto stesso di opera d’arte. Liberato dai lacci dell’illustrazione e dell’imitazione, il quadro doveva aprire un varco verso l’inconoscibile, verso ciò che è altrove. È una dimensione allegorica, potremmo dire, in cui la concretezza dell’oggetto, della raffigurazione riprodotta, manifesta e sottintende l’astrazione di un’idea. L’estensione fisica della superficie, per questo tramite, diventa lo specchio delle profondità immateriali del sogno e dell’invenzione poetica.

Per averne un esempio facciamo un nome: Henri Rousseau, detto il Doganiere. Ex impiegato al Dazio di Parigi – di qui l’ironico appellativo che gli era stato dato dagli amici – si era messo presto in pensione per potersi dedicare interamente alla pittura. Autodidatta, conosciuto per le sue giungle e i suoi paesaggi esotici, dalle fiabesche atmosfere ma ingenuamente naif nella staticità della composizione e nella stesura piatta del disegno, fu accusato in principio di scarso talento, riguadagnando in seguito, per la singolare audacia della sua visione, la stima e il sostegno dei più grandi innovatori a lui coevi come Guillaume Apollinaire, Paul Signac, Odilon Redon, Paul Gauguin, Georges Braque e Pablo Picasso. Quest’ultimo, nel novembre del 1908, organizzò in onore di Rousseau un grande banchetto a Montmartre, rimasto famoso, tra i vari aneddoti, per una frase pronunciata dal festeggiato e rivolta con gratitudine al suo anfitrione: «Tu ed io siamo i più grandi pittori del mondo, io nel genere egiziano e tu in quello moderno». Alcune fonti invertono l’attribuzione degli aggettivi “egiziano” e “moderno” all’uno o all’altro, ma la sostanza del singolare abbinamento non cambia.

È pur vero che dalla fine del Settecento, dopo la campagna di Napoleone sulle rive del Nilo, quello per la cultura delle Piramidi era diventato un gusto corrente. Bonaparte, nella sua avventura militare, si era fatto accompagnare da una folta schiera di addirittura 167 “saggi” che raccolsero e classificarono un eccezionale patrimonio di acquisizioni riunite, nel 1809, nella celebre Description de l’Égypte, articolata a sua volta in benventiquattro volumi di testi, mappe e acqueforti. Le eccezionali scoperte contagiarono l’intera Europa, influenzando la decorazione architettonica, incentivando ulteriori esplorazioni, e consolidando la cosiddetta “letteratura di viaggio” che, già dal XVI secolo, aveva utilmente contribuito al culto per la terra dei faraoni. Non abbiamo sufficienti elementi, tuttavia, per ritenere che il termine adottato dal Nostro appartenesse al vocabolario di un occasionale spunto mutuato dalla moda del momento, né ci è lecito supporre che “egizio” o “egiziano”, qualora si riferissero a Picasso, alludessero all’incomprensibilità delle sue Demoiselles d’Avignon, per alcuni “colleghi” ancora da metabolizzare.

Maggiormente plausibile, riteniamo, è la sussistenza di insospettabili assonanze, con i dovuti distinguo è chiaro, tra la “maniera” inaugurata dal maestro di Laval, che prelude alle citate avanguardie, e alcune peculiarità dell’arte egiziana stessa, che abbiamo introdotto in generale per evidenziarne l’eredità nel contesto che ci compete, con particolare riferimento alla fissità, alla bidimensionalità e alla rappresentazione simbolica del reale. Se cambiano le effigi, le fattezze di personaggi e ambientazioni, rimane infatti la priorità del significato del “messaggio”, simbolico appunto, rispetto al significante recepito attraverso i sensi, che in sostanza è l’opera medesima nel suo rivelarsi all’occhio dello spettatore: non conta ciò che si osserva, ma ciò che sta dietro a quello che si osserva. L’universo di Horus, Hapy ed Anubi, chiuso geograficamente tra deserto e mare, amplificava i suoi valori etici, religiosi e sociali nell’originale compendio di un repertorio di archetipi facilmente accessibile al popolo dei propri sudditi; alle soglie della Grande Guerra, nella città della Tour Eiffel, i ribelli, gli antiaccademici semplificavano, scarnificavano a loro volta i volumi per guadagnare alla tangibilità del “fenomeno”, ridotto a finzione, l’intensità di un’eco interiore. In entrambe i casi, a distanza di millenni e con differenti “fogge”, gli attori sul proscenio sono trasformati in miti ed emblemi, superando la logica del tempo e dello spazio.

Nel chiederci se il candido Rousseau avesse una lucida cognizione di questa contaminatio sui generis, o almeno la intuisse, d’istinto, al punto da farne encomionon si sa bene se a sé stesso o al suo sodale di quell’indimenticabile serata, ipotizziamo tuttavia che una ragione dovesse pur esserci, avendo il sospetto che la simplicitas del Doganiere albergasse più nelle congetture dei suoi detrattori che in ciò che traspare dal suo lavoro.

Si dirà, in proposito, di un quadro, La zingara addormentata, del 1897 (New York, Museum of Modern Art), che si ritiene abbia anticipato l’avventura surrealista ma che a noi interessa per verificare, nel concreto, l’attendibilità di quanto sostenuto finora. Lo sfondo è un paesaggio desertico, di notte, con la luna piena e le montagne in lontananza che paiono sospese nell’aria. La girovaga, dalla pelle scura e con un povero vestito a strisce, giace orizzontalmente sulla sabbia, come una sagoma ritagliata e successivamente applicata alla tela, senza aver lasciato impronte attorno a sé e con accanto un leone, dalla coda tesa e dalle pupille dilatate, che reclina circospetto la criniera su di lei. Il bastone che essa tiene tra le mani, un mandolino, e un vaso di terracotta, costituiscono lo scarno bagaglio della sua misera condizione. Commenterà Jean Cocteau: «Il mistero si crede solo e si mette a nudo. […] La zingara non è venuta qui. Essa è qui e non è qui. Non è in nessun luogo. […] Penso all’Egitto, che sapeva guardare ad occhi aperti nella morte come i palombari nel mare».

Anche lo scrittore francese, nella sua esegesi, non sfugge quindi, metaforicamente, all’allettamento di Osiride: l’inquieto enigma del presente è la progenie dell’antica familiarità con l’ignoto che lo ha fecondato e che, indirettamente, allude all’indicibile della vita e dei suoi infiniti volti. Siamo lontani da una generica seduzione dell’esotico, dall’orientalismo che aveva ispirato Jean Auguste Ingres con La grande Odalisca o Eugène Delacroix con La morte di Sardanapalo e le Donne d’Algeri. In questo preludio al Novecento, che si annuncia con la rivoluzione dei suoi idiomi e le sue incursioni nell’ “esistenziale”, la tecnica, da puro virtuosismo, si rende strumento di conoscenza, Epifania, come la intendeva James Joyce, e cioè rivelazione spirituale generata da eventi, oggetti o situazioni che sembrano banali, ma che manifestano qualcosa di più profondo. L’assenza delle ombre e della successione dei piani, l’esattezza dei contorni, cristallizzati per sempre in una staticità impenetrabile ed estraniante, confermano allora, al di fuori di ogni artificiosa mimesi della natura, l’annessione del dato empirico a un suo equivalente metafisico. È una conciliatio oppositorum,che getta un ponte, insospettabile,tra l’arte antica e l’arte moderna, tra l’Egitto del passato remoto e la Francia del passato prossimo cui si accennava all’inizio, riletti per la vitalità e l’unicità che li accomuna piuttosto che per la cronologia che li divide.

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