Chiariamoci subito le idee, peccare di gola piace a tutti e mai come in questo momento della storia del costume in Italia e nel mondo, piace esibire il cibo in tutte le sue forme, dai panini a quattro strati pieni di salsa a piatti raffinati e minimal di ristoranti eleganti, passando per pizze casalinghe, piatti di pasta della mamma, tocchi di carne alla brace, cioccolati fusi.
L’hashtag “foodporn” é il terzo più diffuso al mondo sui social, dopo quello che é immediatamente più vicino al concetto di piacere, il sesso ovviamente, dove questo legame di passione ha una storia profonda, antica, ancestrale, lunga due milioni di anni quando le prime comunità di proto ominidi si riunivano intorno al fuoco per condividere ciò che i cacciatori avevano deciso di non consumare nel luogo di caccia. Qui nascono le prima regole di controllo del bene in assoluto più necessario che così da dinamica biologica, comincia a conformarsi in una dinamica culturale che riguarda come con chi e quanto cibo si mangia, arrivando ad ossessioni e norme a tavola, assolute nel poco ed esagerate nel troppo, proprio come quelle alle quali in qualche modo stiamo assistendo nella società odierna.
La riflessione si apre poi in un paradosso che vede da una parte una necessità di esibizione di cibo in quanto status, dall’altra un’esasperazione del concetto di dieta alimentare per mantenere un’altro status, quello fisico legato ad una bellezza eterna non garantita da quegli stessi cibi che infatti sono solo esibiti.
C’è infatti una bella differenza tra mostrare e consumare e lo sanno bene i golosi, quelli che non resistono, quelli che peccano e sanno di peccare, quelli che poi si attorcigliano in sensi di colpa verso un limite che non sanno rispettare e che li farà sentire senz’altro male, sí molto male, ma dopo, sempre dopo aver mangiato troppo.
É l’infrazione di un limite a farci sentire in colpa, non tanto la capacità di assaporare e dare un giusto valore a ciò che stiamo mangiando con piacere, ma più l’incapacità di fermarsi quando il piacere di mangiare come nutrimento e gioia si tramuta in ingordigia senza fine.
Certo é che se ci sentiamo in colpa la responsabilità non é da amputare a Dante Alighieri e nemmeno ad Aristotele che il problema se lo era posto mille e cinquecento anni prima di Dante, ma al sommo poeta dobbiamo senz’altro riconoscere la paternità di un immagine di peccato così tanto riuscita da diventare riferimento assoluto nell’immaginario collettivo fino a farci dire che senza dubbio, chi é goloso soffrirà le pene dell’Inferno.
Incapacità di trovare un limite in amore o nelle pulsioni più basse come l’ingordigia, Dante la costruisce in successione, passione dopo passione, prima l’amore poi la gola, prima la dannazione dei due cognati più famosi del mondo e poi l’eterno dilaniarsi in tormenti per chi non ha saputo riconoscere nella gola, un peccato.
Con una riflessione in più nel peccato di gola che apparentemente sembra più innocuo ma che al contrario Dante posiziona nel suo girone politico, il sesto, per dare a questa ingordigia una valenza molto più ampia che non si ferma alla gola fine a se stessa ma che apre alle più infami ingordigie della politica appunto, calcando la mano sulla gestione di Firenze stessa.
Dilaniati e graffiati in eterno da un cane a tre teste ( immediato qui il collegamento, pensando al cane, ai cani di Pavlov e la sua acquolina in bocca) immersi in un fango puzzolente che entra anche in gola, sotto una pioggia acida e gelida, é l’esatto opposto di sensazione di calore, appagamento, piacere assoluto che il cibo voluttuoso, regala al punto da non poterne farne più a meno e sono questi i due margini dell’immaginario in cui Dante ci porta attraverso una lirica grave e profonda perché il grande luogo in cui tutto si posa e si svolge, sia che per la passione amorosa che per la gola, é la morale.
C’è una “morale” in un piatto? Esiste un modo di raccontare un senso del limite attraverso una ricetta? C’è una ricetta che ci faccia sentire bene e in pace con noi stessi in quanto “pura”? In effetti nel Medioevo c’era ed era così tanto legata a questi concetti che ha influenzato in maniera fatale alcuni riti nelle cerimonie più importanti della nostra vita, da rimanere sedimentata nella nostra cultura popolare ancora oggi e i confetti che regaliamo a battesimi e matrimoni, sono la prova di ciò. Il biancomangiare o sarebbe più corretto i bianchimangiare, era uno stile dove il bianco rappresentava la purezza assoluta anche nelle preparazioni di carni di pollo in salsa di latte e lardo, mandorle naturalmente bianche ma rese ancora più bianche perché ricoperte di una glassa di zucchero, riso e molliche di pane in latte di mandorle, che costruivano un’idea di ascetismo adatta alla morale dell’epoca al punto da poter essere presentate in banchetti di imperatori e papi proprio perché, con le loro trasparenze e monocromie, vicine all’idea divina e quindi perfette, rispettose, eleganti nel candore del bianco che é il bene che vince sul nero, il male, in un’eterno dualismo dove siete voi a fare differenza con le vostre scelte.
Di tutt’altro avviso l’ultima creazione di casa Algida, un Magnum edizione limitata nel mese di marzo dedicato alle celebrazione dantesche, che si chiama appunto Inferno: totalmente nero di cioccolato fondente, lingue rosse di lampone che lo percorrono come fiamme dell’inferno, una nota salata per riportarci nel mondo dei vivi.
Ora non vi resta che scegliere, come sempre.
di Francesca Rocchi (Divulgatrice culturale in ambito enogastronomico ed antropologico)