1. Dall’editto Pacca al testo unico dei beni culturali del 1999: interesse pubblico insito nei beni culturali vs proprietà privata e libertà di commercio.
Dopo i guasti delle spoliazioni napoleoniche apparve evidente ai filocalòi, in un’Italia che da secoli era già “nazione” grazie al paesaggio e alla tradizione artistica, che tanta bellezza attirava troppi sguardi famelici, che il depauperamento di tale bellezza era dietro l’angolo, che l’aggressione alla memoria storica nazionale costituiva un attentato all’identità e all’unità culturale.
L’idea di imporre per legge vincoli all’esportazione delle opere d’arte, che si concretizzò per la prima volta nello Stato pontificio nell’Editto del cardinal Pacca del 1820, nacque con lo scopo di contrastare la bramosia delle sempre più agguerrite potenze europee e dei sempre più ingordi possidenti stranieri, favorita dallo scarso o inesistente senso civico delle classi dirigenti nostrane e da una crisi economica atavica e ingravescente. Si trattava della prima e più semplice forma di tutela delle cose d’interesse storico e artistico, i futuri “beni culturali” e quindi, indirettamente, del significato identitario e civile degli stessi[1].
Si trattò di una breve parentesi perché l’avvento del liberalismo, nello Stato unitario, con i suoi postulati fondamentali in tema di libero commercio e inviolabile proprietà mobiliare e immobiliare[2] favorì ed anzi aggravò la fuoriuscita delle cose d’arte dai confini nazionali; in più, non frappose ostacoli alla messa a reddito delle aree immobiliari all’interno e all’esterno dei centri urbani, mediante la lottizzazione dei terreni inclusi in ville storiche o l’alterazione dei palazzi nobiliari, in spregio dei valori artistici, delle memorie storiche e dell’armonia ambientale.
Proprio il crescente impoverimento del patrimonio storico nazionale dovuto a esportazioni, demolizioni e lottizzazioni fece riemergere il sentimento conservativo del bello e dell’antico e con esso il concetto del valore identitario delle memorie del passato e del paesaggio, instillando in molti l’idea dell’interesse pubblico immanente (anche) a peculiari beni privati e della preminenza di tale interesse (e del valore culturale insito nelle cose) sulle facoltà dispositive tipiche del diritto di proprietà. Di qui, in piena epoca giolittiana, le leggi 12 giugno 1902, n. 185, e 24 giugno 1909, n. 364, con le quali per la prima volta il principio della limitazione pubblicistica prevaleva sui dogmi propri dell’ideologia e della prassi liberale. Di qui, ancóra, pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, la legge 11 giugno 1922, n. 778, dovuta alla caparbietà del ministro Benedetto Croce, a tutela delle bellezze naturali; e, in séguito, in piena coerenza con l’impianto statalista del nuovo regime, le leggi 1° giugno 1939, n. 1089, e 27 giugno 1939, n. 1497, volute dal ministro Bottai.
Questa impostazione, tutta incentrata sulla “tutela”, fatta di vincoli e divieti, come tali derogatori al diritto di proprietà e alle regole del libero commercio[3], è stata confermata nella legge paesaggistica n. 431 del 1985, cd. legge Galasso, e nel Testo unico dei beni culturali e ambientali, del 1999 (d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490); qui si attuava in modo organico e fedele il precetto contenuto nell’art. 9 della Costituzione repubblicana[4], in cui l’idea antica del valore identitario del paesaggio e del patrimonio storico artistico era esaltata ai massimi livelli dell’Ordinamento[5].
2. La “tutela” del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, nella tradizione giuridica italiana.
In sintesi, secondo la tradizione giuridica nazionale, recepita e portata a piena maturazione dal Testo unico del 1999, gli istituti di tutela del patrimonio culturale consistevano: 1) negli obblighi conservativi/di custodia di beni riconosciuti come appartenenti al patrimonio culturale stesso, cui sono tenuti proprietari e detentori, siano essi enti pubblici oppure soggetti privati; 2) negli obblighi conoscitivi di tali beni, propri del Ministero preposto alla tutela; 3) nella potestà pubblica di adottare misure incidenti sui diritti patrimoniali dei privati relativi ai beni culturali tra cui: a) vigilanza e ispezione, b) autorizzazione di attività demolitorie, traslative, distruttive, edificatorie, modificative della destinazione, c) acquisto in via di prelazione, d) autorizzazione all’uscita definitiva e temporanea dai confini nazionali, e) ordine di occupazione temporanea di immobili dove devono eseguirsi ricerche archeologiche, f) espropriazione per causa di pubblica utilità, g) autorizzazione paesaggistica, h) divieti di attività pubblicitarie, i) ordini relativi ai colori delle facciate degli immobili.
In breve, la tutela, asse portante della normativa in materia, era tutta orientata ad un solo scopo: conservare l’integrità fisica dei beni culturali, in modo da consentirne la presente o futura fruizione da parte della collettività, in vista del progresso della conoscenza. E non poteva essere altrimenti, dato che il patrimonio storico e artistico comunque appartiene alla Nazione (senza tener conto del fatto che i beni culturali sono tali proprio perché presentano un interesse pubblico, quindi hanno di per sé natura pubblica[6]). E che la fruizione, essendo “un processo di conoscenza, qualificata e compiuta, di un oggetto, di una realtà che diventa parte e patrimonio della cultura singola e collettiva”[7], è strumentale al fine ultimo, lo sviluppo della cultura. Non a caso lo stesso art. 9 Cost. principia come segue: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Laddove “cultura” è sinonimo di humanitas[8].
Sennonché, è inutile negarlo, la funzione di tutela è stata spesso interpretata dagli uffici ministeriali in modo così restrittivo, formalistico e statico nel rispetto rigoroso delle competenze interne, da perdere di vista gli scopi ultimi.
3. Il codice dei beni culturali e ambientali del 2004: tutela, valorizzazione, coinvolgimento dei privati.
Ciò detto quanto al passato, molto è mutato, in tema di beni culturali, con il decreto legislativo n. 42 del 2004, recante Codice dei beni culturali e del paesaggio, detto anche Codice Urbani, dal nome del ministro che ne fu l’entusiastico promotore.
La ratio (formale) del Codice (d’ora in poi, CBC) si rinviene nella legge delega n. 137 del 2002: riordinare e semplificare la materia, con il divieto di ulteriori restrizioni alla proprietà privata e di abrogazione degli strumenti vigenti di tutela dei beni culturali e ambientali. In ciò, nulla di rivoluzionario, se non comparisse in più punti (addirittura con ripetizione ossessiva nel primo articolo, dedicato ai Princìpi[9]), il binomio tutela-valorizzazione, laddove la prima è fortemente tipizzata (art. 3) mentre la seconda, anticipata dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, e consacrata dal nuovo art. 117 Cost., è definita in modo generico, nonostante il fiume di parole, nell’art. 6 CBC («1. La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. – 2. La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze.») e nell’art. 111 dello stesso codice («1. Le attività di valorizzazione dei beni culturali consistono nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6. A tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare soggetti privati. – 2. La valorizzazione è ad iniziativa pubblica o privata. – 3. La valorizzazione ad iniziativa pubblica si conforma ai principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione. – 4. La valorizzazione ad iniziativa privata è attività socialmente utile e ne è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale.».
Tuttavia la prima vera novità del testo normativo ed anzi uno dei motivi ispiratori della riforma consiste nella partecipazione dei privati alle iniziative per incrementare la fruizione dei beni culturali, come si desume dalle linee guida della legge delega n. 137 del 2002: «aggiornare gli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali e ambientali, anche attraverso la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati …, riorganizzare i servizi offerti anche attraverso la concessione a soggetti diversi dallo Stato mediante la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati…» e come è statuito, molto chiaramente, nell’art. 6 comma 3 CBC: «La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale».
Tale novità è consacrata dall’art. 112 CBC, che prevede il coinvolgimento dei soggetti privati, mediante la partecipazione ad appositi soggetti giuridici, a cui è affidato il còmpito di elaborare “piani strategici di sviluppo culturale” (art. 112 commi 4, 5, 8 CBC) e mercé la stipula di accordi con Stato, regioni, altri enti pubblici territoriali, “per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” (art. 112 comma 9 CBC).
Ma se la possibilità che singoli partecipino alla gestione di beni di tutti mediante piani e regolamenti già di per sé confligge sul piano ideale con il l’appartenenza comunitaria di quei medesimi beni, cosa dire dell’art. 115 comma 3 CBC, dedicato alla gestione in forma indiretta, in cui si prevede il passaggio della materiale e giuridica disponibilità di musei e siti archeologici pubblici a soggetti di incerta o ibrida natura, quali “istituzioni, fondazioni, associazioni, consorzi. società di capitali, o altri soggetti costituiti o partecipati in misura prevalente dall’amministrazione pubblica”, secondo le intenzioni “al fine di assicurare un adeguato livello di valorizzazione dei beni culturali”? Proprio l’affidamento e la concessione a terzi costituiscono gli strumenti grazie ai quali, o a causa dei quali, negli ultimi vent’anni i soggetti privati hanno espugnato la cittadella del patrimonio culturale pubblico.
4. Il guscio vuoto della valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica.
A prescindere dalle difficoltà classificatorie della funzione di valorizzazione dei beni culturali, secondo i tradizionali schemi del diritto pubblico[10], la lettura delle norme citate non consente di individuare le modalità per la realizzazione degli scopi della medesima “valorizzazione” (art. 6 CBC: promuovere la conoscenza del patrimonio culturale … assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso; la promozione e il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale),poiché non sono dettagliate le attività promozionali,né è specificato il modo in cui si debba realizzare il sostegno, ovvero costituire e organizzare in modo stabile le risorse e mettere a disposizionele competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali. Anche l’art. 115 comma 3 CBC non stabilisce il modo in cui gli attori della gestione in forma indiretta delle attività di valorizzazione di beni culturali debbano “assicurare un adeguato livello di valorizzazione dei beni culturali” oggetto di affidamento. Il tutto è quindi rimesso alla “fantasia” dell’amministrazione pubblica e dei privati partecipi dei soggetti affidatari o concessionari. La dottrina pubblicistica ha parlato di nozione “aperta” e “dinamica” dell’attività di valorizzazione[11], ovvero di concetto “sfuggente, intraducibile, una vera e propria chimera”[12]; si tratta, a ben vedere di un “guscio vuoto”, da riempire ad libitum, come poi è avvenuto, ad usum privatorum.
5. Gli scopi della valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica: attrazione di mecenati o arruolamento di mercenari?
La scelta della partnership Stato-enti pubblici-soggetti privati nella valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza pubblica (id est, nell’accesso di individui e società in un mondo quasi impenetrabile fino al 2004) ha una matrice ideologica chiara, che corrisponde all’ispirazione neoliberale dei fautori del Codice e il cui corollario, nello specifico settore della cultura, si riassume nella teoria del “petrolio d’Italia”[13]. Qui non si vuole disquisire sulla filosofia di base, bensì sugli scopi (veri e reconditi) e sugli effetti di lungo e medio periodo di tale opzione politica.
A guardare la riforma senza pregiudizi, l’intento del legislatore del 2004 consisteva nel reperire le risorse finanziarie necessarie per migliorare la fruizione dei beni culturali, favorire il mecenatismo, attivare un processo virtuoso di partecipazione delle forze vitali del Paese al miglioramento della fruizione del patrimonio culturale, inventare forme più moderne di gestione di tale patrimonio[14]. Tutto molto ragionevole, oltre che conforme alla Costituzione, la quale nel nuovo art. 117 consacra la valorizzazione dei beni culturali e ambientali attribuendola alla legislazione concorrente Stato-Regione. Sennonché, in uno scritto coevo alla legge delega, il ministro eponimo del Codice pronunciò alcune parole che evocavano una finalità ulteriore, non palesata dal testo normativo: «Se una persona riceve in regalo una banconota, può mettersela in tasca, o in banca oppure sotto il mattone… oppure farla fruttare e la banconota improvvisamente varrà undici, dodici, tredici, quattordici. I modi di far fruttare le banconote, quindi i beni culturali o i musei sono tanti»[15]. Quella finalità era dunque la messa a reddito del patrimonio culturale pubblico, il “far fruttare” i beni culturali in termini monetari. Eppure, i veridici “frutti” della cultura sono la memoria storica, lo spirito critico e – se possibile – anche la crescita del senso civico e della coesione sociale; anche a livello costituzionale lo sviluppo della cultura è indicato come obbligo della Repubblica, senza altra aggiunta.
Ma contro la poderosa offensiva della macchina ideologica mercantile nulla hanno potuto le chiare e belle parole del presidente Ciampi – «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano messi effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte costituzionale in una sentenza del 1986 quando ha indicato la ‘primarietà del valore artistico, culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici»[16] – : l’idea dei beni culturali come giacimento da far fruttare – anzi da sfruttare – ormai è così diffusa da assurgere a opinio communis, a dogma indiscutibile, a parola d’ordine anche per politici di orientamento opposto a quello che generò il Codice[17].
Se lo stesso concetto della funzione economica del patrimonio culturale è criticabile, lo è ancora di più la finalità occulta della riforma, quale trapela da altre e più illuminanti parole dello stesso ministro, nel medesimo scritto del 2002: «La legge, quando l’approvammo, suscitò molte polemiche. ‘Vogliono dare in mano ai privati il nostro patrimonio artistico’: chi dice questa frase non sa com’è nato, quel nostro patrimonio. È nato dai privati: al massimo glielo restituiremo… ma non è nemmeno questo quello che faremo! Il patrimonio artistico resta in mano ai soprintendenti, i privati collaborano con i soprintendenti per la gestione del bene»[18]. Ecco qui, prima ammesso e poi smentito, l’obiettivo ultimo del Codice: consentire ai privati di partecipare allo sfruttamento economico dei “giacimenti” culturali.
6. Gli effetti materiali della “valorizzazione” economica dei beni culturali di appartenenza pubblica.
A distanza di tre lustri dalla riforma occorrerebbe verificare se e in che modo siano stati realizzati gli scopi di miglioramento della fruizione del patrimonio culturale da parte della comunità nazionale e del mondo intero.
Non potendosi comparare dati numerici e valori immateriali, non è dato confermare o escludere che le (poche) erogazioni liberali disinteressate e le (più numerose) donazioni for profit[19] abbiano contribuito all’innalzamento del livello dell’offerta formativa dei musei pubblici e quindi alla crescita culturale della collettività. Tuttavia, chiunque frequenta tali luoghi può apprezzare de visu l’effetto più eclatante degli altri interventi privati in cui è consistita, di fatto, la valorizzazione del patrimonio culturale pubblico, quali le sponsorizzazioni, le concessioni a terzi di istituti museali, gli accordi con le fondazioni bancarie, l’affidamento ai privati dei cd. servizi aggiuntivi “inventati” dalla legge n. 4 del 1993 cd. Ronchey e incrementati con il d.-l. n. 41 del 1995[20]: la metamorfosi di alcuni dei più appetibili siti pubblici da istituti elitari di conservazione di opere d’arte a poli dell’intrattenimento/consumismo “culturale” di massa. Di qui, a cascata, le conseguenze, in termini di profitto economico, di cui beneficiano in toto o pro parte coloro che curano la biglietteria, gestiscono i punti di ristoro, le librerie, i servizi didattici ecc. e chi organizza le ricorrenti mostre-evento, in cui – spesso – o al grande richiamo mediatico corrisponde poco o punto progresso conoscitivo[21]. Come dire: la “valorizzazione” giova soprattutto a chi la fa[22].
Vi sono poi altri effetti per così dire “materiali” dell’apertura al settore privato del patrimonio culturale pubblico.
La politica di movimentazione delle opere d’arte per rendere appetibili le mostre organizzate dalle fondazioni tiene in minimo conto il pericolo di deterioramento dei manufatti antichi, dovuto all’incuria dei traslocatori ovvero alle inidonee modalità di esposizione. Ed infatti, è accaduto che al timore sia seguìto il disastro (si allude, ad es., allo sbriciolamento del bassorilievo canoviano raffigurante la Morte di Priamo, in occasione della mostra dedicata al Canova da parte del comune di Assisi, nel 2013[23]).
L’affidamento dei servizi aggiuntivi a società private e il conferimento dei beni culturali a fondazioni ed enti di analoga natura, i cui dipendenti sono assunti a tempo determinato o con le modalità fraudolente/immorali legittimate dalla più recente legislazione lavoristica, in nome della deregulation e della concorrenza internazionale, determina come effetto immediato l’aggravamento della situazione occupazionale, dato che per un verso toglie un posto di lavoro che in altre epoche sarebbe stato assegnato a tempo indeterminato[24] e per altro verso perpetua la piaga sociale del precariato.
In ogni caso di privatizzazione, al (presunto) miglioramento dei servizi fa sempre da contraltare l’aumento dei costi; anche nel settore dei beni culturali l’affidamento di siti museali a fondazioni e altri enti analoghi ha determinato un rincaro dei prezzi dei biglietti. Eppure, la cultura, come la sanità e la scuola, dovrebbero essere alla portata di tutti, specialmente se meno abbienti.
Infine, non si può ignorare che le opache relazioni tra gli amministratori degli enti pubblici territoriali e i manager delle fondazioni e delle altre società affidatarie o concessionarie di servizi in non poche situazioni hanno favorito elargizioni di denaro pubblico allo scopo di “sostenere” iniziative pseudo culturali di soggetti privati[25]. Come dire: socializzare gli esborsi, privatizzare gli utili.
7. Gli effetti immateriali della “valorizzazione” economica dei beni culturali di appartenenza pubblica.
Ben più gravi appaiono le conseguenze per così dire “immateriali” o “invisibili” della valorizzazione commerciale dei beni culturali di appartenenza pubblica.
Il surplus dei costi delle visite, spesso giustificato dalla presenza di esposizioni temporanee ovvero dovuto all’affidamento ai privati di alcuni servizi aggiuntivi, connessi alla didattica, si pone in contrasto con l’obbligo primario della Repubblica di promuovere la conoscenza tra tutti, anche tra i meno abbienti (art. 3 comma secondo Cost.: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…»).
Non di rado l’imposizione di mostre-evento da parte delle fondazioni e delle società che gestiscono i siti pubblici cagiona un’artificiale interruzione del percorso museale e quindi un’alterazione del contesto, con connesso nocumento nella comprensione di opere e autori. Lo stesso risultato deriva dallo spostamento temporaneo di opere d’arte (di proprietà pubblica) dai musei di pertinenza allo scopo di valorizzare le esposizioni temporanee organizzate da privati o da fondazioni e società a partecipazione mista, magari a distanza di pochi chilometri dalla sede istituzionale.
La valorizzazione – mercé l’affidamento ai soliti noti, in odore di lottizzazione politica, basta guardare nomi e sigle – dei siti connotati dal maggior richiamo mediatico, in quanto fonte di maggiori introiti, determina, da un lato, il congestionamento di alcuni luoghi delle città d’arte, e, d’altro lato, il disinteresse dei cittadini e dei turisti nei confronti delle parti meno pregiate (dal punto di vista economico) del patrimonio culturale di appartenenza pubblica; la conseguenza ultima è, per un verso, la crescente invivibilità urbana dei centri storici e, per altro verso, la chiusura o la concreta non fruibilità dei cd. musei minori. Anche in tal modo pochi guadagnano a danno dei molti, il cui “diritto alla città”[26] e alla conoscenza è quotidianamente umiliato e offeso.
I grandi vantaggi in termini di marketing che scaturiscono dalle sponsorizzazioni milionarie di certo non incoraggia la filantropia disinteressata dei mecenati veri, sempre che esistano[27]; la conseguenza è che uno dei principali obiettivi della riforma, promuovere il mecenatismo no profit, di fatto non è stato realizzato. D’altra parte, le iniziative di sponsorizzazione spesso generano un incalcolabile effetto immateriale, la legittimazione pubblica di benefattori di incerta virtù[28], più o meno come è accaduto a Ottaviano Augusto e a Lorenzo de Medici, al contempo protettori delle arti e implacabili liberticidi. La conseguenza ulteriore: la funzione critica dello studio delle opere d’arte (tra l’altro, ricostruire il contesto e scoprire la genesi in un sistema sociale fondato sulla sopraffazione di pochi a danno di molti) si trasfigura nella funzione opposta (magnificare i lupi travestiti da agnelli).
La spettacolarizzazione della cultura, propria dei musei e dei monumenti di maggiore richiamo turistico, può contribuire ad avvicinare le masse alle manifestazioni artistiche (più o meno come le vetrine rutilanti e i marchi di successo attirano i consumatori), ma giocoforza determina un declino della qualità dell’offerta culturale degli istituti pubblici e quindi, alla lunga, anche della loro credibilità in àmbito internazionale; infatti è già accaduto che i direttori dei musei, verosimilmente per carpire un sempre maggiore numero di visitatori, nell’àmbito di una competizione che ricorda quella che le aziende praticano ogni giorno, hanno accettato di ospitare mostre che definire inadeguate al contesto è dire poco[29]. Ma la valorizzazione commerciale di musei e monumenti produce un altro e più grave risultato: ciò che l’ideologia elitaria d’antan avrebbe definito “desacralizzazione dell’arte” e che oggi, più laicamente, potrebbe appellarsi mercificazione del patrimonio culturale, la quale si traduce a) nel mutamento del significato originario di musei e monumenti: non più luoghi di conoscenza e ricerca, bensì occasioni di svago e compravendita di paccottiglia varia, alla stessa stregua di qualunque centro commerciale; b) nella consacrazione – anche in luoghi deputati ad altro – del comandamento primo dell’ideologia dominante, in base al quale tutto è business; c)nell’oblio della funzione morale e giuridica dei beni culturali pubblici, ossia la promozione della conoscenza e della bellezza comequalcosa che appartiene a un ordine “altro”, che i soldi non possono comprare e in cui il mercato non può entrare[30]. Come ha osservato Montanari: «Comprare il diritto di cenare ai piedi del David di Michelangelo, coprire Palazzo Ducale a Venezia di cartelloni pubblicitari, usare il Colosseo per vendere scarpe significa far conquistare al consumismo sfacciato anche i luoghi che dovrebbero lenire e curare le conseguenze di quello sfacciato consumismo … Significa fare ammalare la medicina»[31].
Infine, le ripercussioni politiche. L’assegnazione di sempre maggiori funzioni ai privati nel governo del patrimonio culturale pubblico, quale è formalizzata nei contratti, implica, de iure, una cessione di potere dell’Amministrazione pubblica a favore dei privati[32], in un settore in cui gli aspetti simbolici da sempre prevalgono su quelli strettamente materiali[33], come sanno bene gli autori delle guerre di occupazione. De facto, la collaborazione anche finanziaria dei privati nella gestione dei beni pubblici, che i sempre più risicati fondi assegnati dalle leggi di bilancio non potrebbero assicurare, comporta un debito di riconoscenza dei Soprintendenti nei confronti di quei “benefattori” e quindi una posizione di inferiorità dei primi rispetto ai secondi. Di qui
- l’attribuzione ai privati delle scelte strategiche riguardanti spazi e beni pubblici (stabilire modalità e orari di bigliettazione vuole dire decidere sull’apertura e chiusura di musei e monumenti; affidare la sorveglianza a guardie particolari giurate oppure a dipendenti indicati da agenzie interinali vuol dire affidare la sicurezza di beni pubblici a soggetti privati; imporre mostre temporanee vuol dire ridurre gli spazi dell’esposizione stabile), il che si traduce nella sottrazione di una fetta di sovranità al proprietario dei beni pubblici, ossia al popolo italiano;
- il rischio della strumentalizzazione/manipolazione dei beni per finalità di profitto o di altro tipo, da parte di chi già possiede preminenza economica e comunque non gode di alcuna legittimazione politica[34]. Rischio che si è già concretizzato, allorché potenze multinazionali hanno piegato al loro business monumenti nostrani di rinomanza mondiale trasformandoli in cartelloni pubblicitari.
8. Conclusioni.
Era prevedibile che la religione mercantile dominante a cavallo del II e III millennio non risparmiasse il patrimonio culturale, ultimo feudo dello Stato accentratore. Lo strumento giuridico per pervenire a tale risultato è consistito nella funzione della “valorizzazione”, il cui generico significato è stato plasmato in senso economicistico, in conformità con le (vere) intenzioni del legislatore del 2004.
Si tratta di una forma di trasmutazione dei beni culturali in beni di consumo, il cui effetto per certi versi è analogo a quello del saccheggio che ha sempre caratterizzato le conquiste militari e le successive colonizzazioni. Se è vero che “sradicare i popoli conquistati è sempre stata e sempre sarà la politica dei conquistatori”[35], la mercificazione dei beni culturali, per il fatto stesso di privare il patrimonio culturale della sua aura di sacralità, è un modo subdolo per minare dalle fondamenta la società che si riconosce in quel patrimonio comunitario, trasformandola in un coacervo di individui isolati e quindi meglio manipolabili.
La storia della “valorizzazione” del patrimonio artistico nazionale è dunque il simbolo visibile della disgregazione culturale del nostro tempo. Quali rimedi? La restituzione al pubblico di ciò che è pubblico e, fin da sùbito, per quanto sia consentito a ogni cittadino consapevole della propria cultura, il boicottaggio dei musei-Disneyland, delle mostre-spettacolo, dei siti monumentali affidati alle fondazioni-asso-piglia-tutto. Si tratta di forme minime di resistenza civile in questi anni bui.
[1] Sul significato identitario e sulla funzione civile dei beni culturali già negli Stati preunitari, S. Settis, Presentazione, in G. Leone, A. Tarasco, (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Cedam, Padova 2006, p. XXV.
[2] Art. 29 Statuto albertino: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili.».
[3] Sul punto, tra gli altri, M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Società editrice del Foro italiano, Roma 1952, p. 19 ss.; M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse storico e artistico, Cedam, Padova 1953, p. 7 ss.; T. Alibrandi e P. G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Giuffré, Milano 2001, p. 3 ss.; G. Severini, Il concetto di bene culturale nel Testo Unico, in P. G. Ferri, M. Pacini, (a cura di), La nuova tutela dei beni culturali e ambientali, Il Sole/24 Ore, Lavis – Milano 2001, p. 26.
[4] Art. 9 secondo comma Cost: «(La Repubblica) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.». Sul contenuto precettivo dell’art. 9 Cost., v. C. cost., sent. 27 giugno 1986, n. 151, in Foro it. 1986, I, 2708.
[5] Sull’argomento, tra gli altri, F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Giuffrè, Milano 2002, p. 203; S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Electa, Milano 2005, p. 73, 271; S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002, p. 21.
[6] M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl. 1976, p. 31.
[7] R. Tamiozzo, Commento all’art. 3 d.lgs.42/04, in Id., (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Giuffrè, Milano 2005, p. 12.
[8] N. Abbagnano, voce Cultura, in Grande Dizionario Enciclopedico Utet, vol. V, Utet, Torino 1968, p. 756: «La parola corrisponde ancor oggi a ciò che i Greci chiamavano paidèia e che i Latini, al tempo di Cicerone e di Varrone, indicavano con la parola humanitas, l’educazione dell’uomo come tale, cioè l’educazione dovuta a quelle ‘buone arti’ che sono proprie soltanto dell’uomo e che lo differenziano da tutti gli altri animali (Aulo Gellio, Notti Attiche, XIII, 17).».
[9] Art. 1: «1. In attuazione dell’art. 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale… – 2. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono … – 3. Lo Stato, le regioni, le città metropolitane… favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione … – 6. Le attività concernenti la conservazione, fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale … sono svolte in conformità alla normativa di tutela.».
[10] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Il Mulino, Bologna 2016, p. 108.
[11] L. Casini, op. cit., ibidem.
[12] L. Casini, op. cit., p. 50.
[13] Espressione di M. Pedini (M. Pedini, Beni culturali e società del futuro, in Ateneo di Brescia, Comune di Brescia, [a cura di], Scritti in onore di Gaetano Panazza, Stamperia Fratelli Geroldi, Brescia 1994, p. 10). Il primo a propugnare la “valorizzazione economica” del patrimonio storico-artistico, a quanto pare, fu il ministro De Michelis, durante un convegno organizzato nel 1985 a Firenze (atti in AA. VV., Le mura e gli archi. Valorizzazione del patrimonio storico artistico e nuovo modello di sviluppo, Roma 1986, p. 90). L’analoga locuzione “Tesoro d’Italia” si deve a G. Urbani (G. Urbani, Il Tesoro degli Italiani. Colloqui sui Beni e le Attività Culturali, Mondadori, Milano 2002).
[14] G. Urbani, op. cit., pp. 6, 13: «Se l’arco di tempo sarà tanto ragionevole da permetterci il salto di qualità, noi pensiamo di raddoppiare le risorse con i trasferimenti pubblici e di quadruplicarle con le risorse private, che vengono dal mercato e dal risparmio dei cittadini: per esempio con il risparmio forzoso delle tasse e con il risparmio spontaneo-volontario. Perché a noi interessa tanto che anche nel mondo della cultura cresca e si diffonda la presenza del privato? Perché lo Stato è unico, il privato, grazie al cielo, è fatto da tanti soggetti, tanti gusti, tante preferenze…».
[15] G. Urbani, op. cit., p. 37 s.
[16] In www.quirinale.it/qenw/statico/ex-presidenti/Ciamp/dinamico/discorso.asp?id=22144.
[17] Dichiarazione del Ministro Franceschini: «Penso che il ministero della Cultura sia come quello del petrolio in un Paese arabo» (in IL Sole 24 ore, 23 febbraio 2014); Dichiarazione del Presidente Napolitano: «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione, bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico» (in Il Sole 24 ore, 23 marzo 2012).
[18] G. Urbani, op. cit, p. 37.
[19] Si allude alle donazioni compensate dai benefici fiscali (cd. Art Bonus) di cui ald.-l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. dalla l. 29 luglio 2014, n. 106, con modificazioni. Sull’argomento, R. Lupi, L’Art Bonus come sovvenzione pubblica in forma di “credito di imposta”, in Aedon 2014, n. 3.
[20] Trattasi della prenotazione, della biglietteria, dell’assistenza anche ristorativa, del servizio didattico, della libreria con annessa vendita di souvenir, dell’organizzazione di mostre temporanee.
[21] Sul punto, ampiamente, T. Montanari, Contro le mostre, Einaudi, Torino 2017, p. 18 e passim.
[22] Nel 2010 su 46.209.838 euro incassati attraverso i servizi gestiti dai privati, questi hanno beneficiato di 40.015.164 euro, mentre lo Stato ha percepito 6.194.674 (dati forniti da V. Emiliani, in L’Unità, 27 gennaio 2014)
[23] In https://www.assisioggi.it/arte-cultura/assisi-relazione-sul-danneggiamento-del-bassorilievo-canoviano-la-morte-di-priamo-2214/.
[24] A. Gioli, Beni culturali e volontariato, quale rapporto? in L. Carletti, C. Giometti, (a cura di), De-tutela. Idee a confronto per la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico, Edizioni ETS, Pisa 2014, p. 60 s.
[25] Sul punto, T. Montanari, Privati del patrimonio, Einaudi, Torino 2014, p. 28 ss.
[26] Espressione di S. Settis (S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi Torino 2014, p. 93 ss.).
[27] Sul punto, T. Montanari, op. ult. cit., pp. 43, 53 ss.
[28] Sulla vicenda della sponsorizzazione del restauro della basilica di Collemaggio, L’Aquila, T. Montanari, op. ult. cit., p. 143. In generale, sull’argomento, Id., ivi, p. 57.
[29] Si allude, tra le altre, alla mostra del 2022 dedicata a Disney, nel Palazzo Barberini, museo (statale) di arte antica, Roma; ovvero alla mostra dedicata a Barbie nel Museo (comunale) delle culture di Milano.
[30] M. J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013, p. 202: «Vogliamo una società in cui ogni cosa è in vendita? Oppure ci sono certi beni morali e civici che i mercati non onorano e che i soldi non possono comprare?».
[31] T. Montanari, op. ult. cit., p. 154.
[32] L. Casini, Ereditare il futuro, cit., p.119; M. Cammelli, Quel pasticciaccio brutto dei servizi aggiuntivi, in Il Giornale dell’arte, settembre 2008.
[33] Sul punto, tra i tanti, K. Pomian, Collezionisti, amatori, curiosi, Il Saggiatore, Milano 1989, passim; D. Lowenthal, The Past in a Foreign Country, Cambridge University Press, Cambridge 1985, passim; G. Pinna, Il valore sociale e il valore storico del patrimonio, in M. L. Tomea Gavazzoli, D. Tuniz, (a cura di), Il cuore antico della Città. Politiche e strategie per il patrimonio culturale: il Broletto di Novara centro di rinascita urbana, Comune di Novara – Interlinea edizioni, Novara 1999, p. 15 ss.
[34] G. Pinna, Patrimonio culturale, musei e il Codice dei beni culturali, in R. Cassanelli, G. Pinna, (a cura di), Lo Stato aculturale. Intorno al Codice dei beni culturali, Jaca Book, Milano 2005, p. 58, 62 ss.
[35] S. Weil, Venezia salva, Adelphi, Milano 1987, p. 55.